Quando si parla di comunicazione efficace, dobbiamo essere consapevoli che il nostro comportamento comunica sempre qualcosa. Per questo è importante sentirsi “responsabili” della propria comunicazione e sviluppare l’intelligenza percettiva (visiva, auditiva e cinestesica) per entrare in rapporto con i nostri interlocutori.

In questa guida ti fornirò una serie di suggerimenti e strumenti per creare rapport con qualsiasi potenziale interlocutore. Si parte dall’ascolto attivo per arrivare a spiegare cosa significhino termini come “ricalco” e “guida”. Ti parlerò anche di sistemi rappresentazionali, di domande aperte e chiuse, di parole chiave e di molto altro.

Potrai certamente usare tutto questo per entrare più facilmente in sintonia con qualsiasi tipo di interlocutore, ma, come sempre, ciò che farà la differenza sarà l’atteggiamento mentale con cui applicherai quanto hai appreso.

Se il tuo unico obiettivo sarà di manipolare in senso negativo l’altra persona, per condurla a prendere delle decisioni non buone per lei ma solo per te, allora potresti correre il rischio che il tuo tentativo di ricalco e guida venga “sgamato” e che l’altro rompa il ponte che hai cercato di costruire, ergendo un muro ancora più spesso.Avere l’atteggiamento giusto significa avvicinarsi realmente all’altro, dimostrando sincero interesse con l’ascolto attivo e individuando una serie di punti di contatto.

Ecco l’indice della guida:

COMUNICAZIONE EFFICACE, NON DARE NULLA PER SCONTATO

Si comunica sempre
Siamo noi i responsabili della nostra comunicazione
Il linguaggio segreto del corpo
Il venditore che non presta attenzione

COME AUMENTARE L’ACUTEZZA SENSORIALE

Conta come lo dici: il paraverbale
Le parole contano, eccome
L’importanza di ascoltare attivamente

I VARI TIPI DI ASCOLTO

La parafrasi e le domande attive
La mappa non è il territorio
L’intelligenza percettiva
Entrare in rapport

 

COMUNICAZIONE EFFICACE: NON DARE NULLA PER SCONTATO

Se è vero che comunicare è un atto naturale, è anche vero che non tutti, e non sempre, lo fanno in modo efficace. Basterebbe prestare più attenzione e riflettere sul vero significato di questa parola per migliorare l’efficacia della propria comunicazione.

La parola “comunicazione” deriva dal latino “communicare” che significa mettere in comune ed è una parola composta da cum (insieme) e munis (dovere).

Partiamo dal cum: insieme. Quando comunichiamo non siamo soli. C’è sempre un altro che riceve il messaggio. Pensa a quante volte capita di ascoltare una persona e di avere l’impressione che non stia parlando con noi bensì con se stessa. Oppure quante volte capita di avere l’impressione che il nostro interlocutore non ci stia proprio ascoltando, ma stia solo ripassando nella mente ciò che deve dirci.

Prestare attenzione al fatto che comunicare significa trasmettere un messaggio a un’ALTRA persona, già ci consente di evitare due errori tipici:

  1. Dare per scontato che ciò che appare chiaro a noi lo sia anche a chi riceve il nostro messaggio.
  2. Pensare che chi riceve il nostro messaggio gli attribuisca lo stesso significato che attribuiamo noi.

Uno dei presupposti della comunicazione definiti da Paul Watzlawick, studioso del Mental Research Institute di Palo Alto, California, dice che: «Il significato della comunicazione sta nel responso che se ne ottiene e non nelle intenzioni». Forse ti sarà successo di dire o fare qualcosa che pensavi sarebbe stata gradita da un tuo famigliare, amico, collega, suscitando invece una reazione inaspettatamente negativa. Ti sei domandato il motivo? Il motivo è che non tutti attribuiamo lo stesso significato agli avvenimenti e quindi reagiamo a essi in modo diverso.

Quindi la prima domanda chiave per comunicare in modo efficace è:

  • Con chi comunico?

Ciò significa porsi altre domande come queste:

  • Qual è la sua mappa del mondo?
  • Quali sono i suoi bisogni?
  • Quali sono le emozioni che sta vivendo in questo momento o che vorrebbe vivere?

C’è poi un’altra domanda che è utile porsi se si vuole comunicare in modo efficace:

  • Qual è il mio obiettivo?

Questa è una domanda utile in ogni momento: a lavoro, in famiglia, con gli amici, quando prepariamo una presentazione in pubblico, quando dobbiamo negoziare, quando dobbiamo gestire un conflitto…

Quante volte capita di perdere di vista l’obiettivo principale della comunicazione! Quando l’unico obiettivo del relatore è finire il prima possibile – o strappare una risata o un applauso – allora la comunicazione in pubblico non è efficace. Quando in una discussione con il partner o un collega l’unico obiettivo diventa “averla vinta” a tutti i costi, allora la comunicazione non è efficace.

 

SI COMUNICA SEMPRE

Il primo assioma della comunicazione definito da Paul Watzlawick è il seguente:
«Non si può non comunicare»

Ciò significa che ogni individuo vivente comunica in molteplici modi e non potrebbe esimersi dal farlo, neanche se lo volesse. L’abbigliamento, la postura, i gesti, come ci muoviamo nello spazio… Tutto parla di noi. Quanto alle parole, non sono sempre indispensabili, anzi: a volte è più eloquente il silenzio, uno sguardo o un sorriso.

La comunicazione rappresenta quindi, più in generale, il nostro comportamento, che non si riferisce solo alle parole che pronunciamo ma anche appunto al nostro linguaggio del corpo e ad altri aspetti. Lo psicologo americano Albert Mehrabian ha anche stimato e definito in termini di percentuale l’impatto che le parole, il tono e il corpo hanno sulla comunicazione. Stando alle sue ricerche la trasmissione di un messaggio dipenderebbe solo per il 7% dalle parole (livello verbale), per il 38% dal tono della voce (livello paraverbale) e per il 55% da ciò che comunica il nostro linguaggio del corpo (livello non verbale).

«Ma come? Non è possibile che le parole contino così poco!». Questa è la reazione tipica delle persone quando apprendono la teoria di Merhabian. Questa reazione di stupore e incredulità però deriva dal fatto che siamo soliti assimilare la comunicazione all’atto del parlare e anche a quello dello scrivere, ma, come abbiamo visto, la comunicazione è qualcosa di più ampio di cui il parlare e lo scrivere sono solo una parte e, per altro, neppure quella preponderante.

 

SIAMO NOI I RESPONSABILI DELLA NOSTRA COMUNICAZIONE

Ora voglio passare all’altro termine latino che compone la parola comunicazione: munis che significa dovere. Questo concetto si associa a quello di responsabilità. Se è vero che tutti comunichiamo perché, come abbiamo visto, è un atto naturale, è altrettanto vero che non tutti si assumono la responsabilità di ciò che comunicano.

Quante volte si dicono o sentono frasi come queste: «Tu non mi capisci», «Hai frainteso quello volevo dire», oppure «Possibile che tu non capisca?», «Non mi ha prestato ascolto».

Se vogliamo comunicare efficacemente dobbiamo assumerci la responsabilità della comunicazione. Se ci fai caso, nella parola responsabilità sono contenute altre due parole: risposta e abilità. Ebbene, saper comunicare efficacemente significa anche questo: essere abili a fornire una risposta. E invece spesso i problemi di comunicazione nascono proprio dal fatto che non esercitiamo questa abilità, ma ci limitiamo a reagire.

C’è una bella differenza tra rispondere e reagire. «Il compito che ti avevo assegnato non è stato eseguito in modo corretto!».

Reazione passiva: «Mi spiace davvero, forse non sono portato per questo tipo di lavoro».

Reazione aggressiva: «Sì perché, come al solito, ho dovuto fare tutto di corsa e senza indicazioni precise!».

Risposta assertiva: «Può mostrarmi come avrebbe dovuto esser fatto? Così la prossima volta posso fare meglio».

Mentre il passivo e l’aggressivo tendono a reagire di fronte a una critica, l’assertivo cerca una risposta e una soluzione. Si assume la responsabilità dell’errore. Ricordi? Responsabilità significa abilità di risposta. L’assertivo è in grado (o cerca di farlo) di fornire una risposta diversa da quella che l’ha portato a commettere un errore.

Laddove l’aggressivo e il passivo si limitano a reagire perché dominati dalle emozioni – il primo dalla rabbia, il secondo dalla paura – l’assertivo invece gestisce le proprie emozioni e, per questo, anche nel caso di conflitto non perde mai di vista il proprio obiettivo principale.

 

IL LINGUAGGIO SEGRETO DEL CORPO

Ci sono casi in cui le parole dicono SÌ, il tono e l’espressione del viso e altri segnali del corpo dicono NO. Il linguaggio del corpo può dare forza e incisività a quello verbale, ma può anche smentire quanto detto a parole.

Ciò accade perché il linguaggio del corpo può essere utilizzato in modo volontario, come ben sanno i grandi comunicatori e seduttori, ma possiede anche una componente involontaria. Quest’ultima sfugge al nostro controllo, a differenza del linguaggio verbale che è, per così dire, quello “di facciata”, quello che possiamo controllare meglio, al punto da dire perfino cose che non vorremmo, ma che sono richieste dalle circostanze.

Ci sono molti modi con cui il corpo sfugge al controllo della volontà ed è estremamente utile riconoscerli per capire meglio gli altri, che cosa pensano e sentono veramente al di là di ciò che dicono, così da avere un feedback veritiero.

Per esempio se mentre parli una persona porta la mano davanti alla bocca o la copre con un pugno come si fa quando si ha un colpo di tosse, potrebbe avere qualcosa da nascondere, magari ha un parere diverso da tuo, ma in quel momento non può esprimerlo liberamente.

E ancora, sfiorarsi il naso o strofinarsi gli occhi, distogliendo in questo modo lo sguardo dall’interlocutore, potrebbe essere il segnale del fatto che la persona non sta dicendo la verità.
Qui il condizionale è d’obbligo, perché non c’è proprio una corrispondenza diretta e necessaria tra questi atti e il loro significato.

 

IL VENDITORE CHE NON PRESTA ATTENZIONE

Immagina questa situazione abbastanza tipica: un venditore che si trova davanti a due interlocutori. Uno parla e interagisce con il venditore. Sembra convinto. L’altro se ne sta in silenzio. Il venditore conclude la sua presentazione e saluta convinto di avere già conquistato un nuovo cliente. In fondo cosa manca? Solo la firma del contratto. E invece non è così.

Dopo qualche giorno il venditore scopre che in realtà la persona in silenzio ha convinto l’altro a cambiare idea. In effetti, a pensarci bene, l’interlocutore silenzioso aveva lanciato qualche segnale da cui si poteva dedurre un certo distacco o uno stato di tensione (la gamba destra si muoveva in continuazione in modo nervoso, lo sguardo era sfuggente, il busto reclinato indietro…), ma il venditore aveva preferito prestare ascolto solo alla persona che parlava e sorrideva.

Se solo avesse prestato più attenzione ai messaggi in codice inviati dall’interlocutore silenzioso forse avrebbe potuto fare qualche domanda giusta in più e quindi avere qualche chances in più di giocarsela meglio. Inconsciamente tutti cogliamo i messaggi inviati dal corpo. Ma non sempre vi prestiamo ascolto. E questo riduce l’efficacia della nostra comunicazione.

COME AUMENTARE L’ACUTEZZA SENSORIALE

Ora vediamo quali sono i principali segnali del corpo in modo da aumentare quella che viene definita acutezza sensoriale, ovvero quella sensibilità che ci permette di cogliere quei messaggi sottili grazie a una maggiore attenzione e consapevolezza, così da poterli individuare e interpretare correttamente.

I segnali emessi dal corpo sono essenzialmente di tre diversi tipi: segnali di scarico di tensione, di rifiuto e di gradimento. Ecco un repertorio di quelli più comuni:

 

I segnali di scarico di tensione

Sono quelli che indicano uno stato di imbarazzo, ansia, stress, tensione del nostro interlocutore. Sono segnali di scarico di tensione i vari grattamenti della testa, del collo, del braccio, ecc., dondolare in modo nervoso la gamba, lo sguardo sfuggente, sorridere in modo nervoso e innaturale, tossire per schiarirsi la voce.

A questi si aggiungono delle variazioni neuro-fisiologiche come il rossore, il pallore la tachicardia, l’ipersudorazione, l’accapponamento della pelle, la respirazione affannosa, il blocco della saliva, il tremore e l’irrigidimento dei muscoli della faccia.

 

I segnali di rifiuto

Sono di solito piuttosto palesi come l’allontanamento fisico, l’espressione del viso cupa, la chiusura in posizione di difesa tipica di chi accavalla le gambe con braccia conserte e ruota il busto di lato in modo che il proprio braccio gli faccia quasi da scudo.

Vi sono poi altri segnali più sottili come sfregare la punta del naso con il dito, spolverarsi o allontanare da sé degli oggetti, come se si volessero prendere le distanze dal problema o dall’argomento trattati dall’interlocutore. Il rifiuto può riguardare solo uno specifico argomento oppure la persona che parla. L’unica prova di questo si può avere se, al variare dell’argomento trattato, continuano i segnali di rifiuto.

 

Segnali di gradimento

Nel viso il centro del piacere è nella bocca e non a caso molti segnali di gradimento vengono proprio da qui, come quello che viene definito il bacio analogico, che consiste nel far sporgere le labbra in avanti, accarezzarsi e mordicchiarsi le labbra, toccare il labbro superiore con le labbra.

Altri segni di gradimento sono l’avvicinamento, il protendere il proprio corpo verso l’interlocutore e l’atto di accarezzare se stessi. Ci sono segnali di gradimento tipicamente femminili di tipo seduttivo come toccarsi i capelli (in realtà si dovrebbe dire accarezzare i capelli, perché l’atto di chi ci gioca attorcigliandoli è un segnale di scarico di tensione), toccarsi il lobo dell’orecchio e giocare con l’anello.

Quando un uomo si accarezza il petto, mette le mani sui fianchi, le appoggia alla cintura o giocherella con la cravatta sta lanciando dei segnali di gradimento e in alcuni casi vuole affermare la propria virilità.

 

Uno schema non rigido

Conoscere i segnali del corpo è fondamentale per essere dei buoni comunicatori. Attraverso la lettura di questi segnali, infatti, è possibile capire cosa piace all’interlocutore, cosa lo disturba, cosa lo infastidisce o gli provoca tensione e stress e quindi adattare la propria comunicazione per renderla ancora più efficace.

Usa pure queste indicazioni di massima, ma con un’avvertenza: non considerarle come uno schema rigido d’interpretazione. Il medesimo segnale può avere infatti anche significati diversi. Per esempio, non sempre le braccia conserte sono un segno di rifiuto ma possono essere semplicemente una posizione in cui il nostro interlocutore si sente particolarmente comodo e a proprio agio e dunque rappresentano il modo migliore per ascoltarci.

Bisogna sempre prestare attenzione al contesto e fare una valutazione globale. Ogni persona ha una sua postura di base che è frutto del suo carattere, dei condizionamenti ricevuti e delle esperienze vissute. Saper riconoscere le reali intenzioni nascoste dietro un gesto richiede occhi e orecchie sempre aperti, mente attenta e naturalmente un cuore.

 

CONTA COME LO DICI: IL PARAVERBALE

Il linguaggio verbale, è di per sé ambiguo e spesso non basta per cogliere il vero senso di una frase. Facciamo un esempio:

«La riunione è domani alle 17».

In quanti modi si può pronunciare questa frase? Quante sfumature di significato può avere?

Potrebbe essere pronunciata con il tono scocciato di una persona che deve annullare la partita al calcetto settimanale con gli amici o quello di una madre che deve lasciare ancora una volta i figli dalla baby sitter fino a tardi.

Potrebbe essere pronunciata in tono preoccupato da una persona che non ha raccolto tutti i dati che dovranno essere esaminati in riunione. Oppure potrebbe essere detta dal capo con un tono tra l’impositivo e il minaccioso quasi a voler dire: «Guai a chi non c’è!».

Eppure le parole sono le stesse, ma il messaggio di fondo è cambiato. Cosa determina il vero senso del messaggio? Il paraverbale.

Tra le componenti paraverbali rientrano il tono della voce (arrabbiato, sereno, seduttivo, sarcastico, dolce, duro…), il ritmo (ossia la velocità con cui parli: un ritmo veloce può trasmettere tensione o motivazione, mentre un ritmo lento può suscitare calma e tranquillità), il volume (parlare a voce alta o bassa) e il timbro (è il colore distintivo della tua voce: calda, roca, stridula, ecc.).

Al variare di questi parametri variano anche le emozioni suscitate nell’interlocutore. Prendiamo la parola “tesoro”. Che tipo di emozione possiamo veicolare o suscitare con questa parola? Verrebbe da dire: positive. E invece, al variare del tono anche una parola come tesoro può assumere connotazioni inaspettate.

Può essere pronunciata con affetto da un genitore o da un innamorato, ma anche con tono di compatimento, con ironia, o addirittura con tono carico di rabbia come fa Jack Nicholson quando rincorre la moglie Wendy in una delle scene più famose del film Shining.

E infine la stessa parola viene pronunciata con una carica emotiva pazzesca da uno dei personaggi più noti del lungometraggio “Il Signore degli anelli”, ovvero Gollum quando dice: «Il mio tessssoro».

Insomma, al variare del tono spesso varia il significato di una frase. Una frase apparentemente neutra può suonare come una critica oppure come un consiglio a seconda del tono con cui viene detta.

Parlando di ritmo e velocità, se sei una persona che tende a parlare troppo velocemente, o almeno così dicono le persone che ti conoscono e ti hanno sentito parlare, e non vuoi trasmettere ansia al tuo interlocutore, ma al contrario farlo sentire a suo agio quando comunica con te, cerca di rallentare. Se, al contrario, sei troppo lento, puoi cercare di velocizzare per evitare di annoiare le persone.

Lo stesso principio si può applicare al volume. Ci sono persone che normalmente parlano ad alta voce e non si rendono conto che questo potrebbe infastidire gli altri. Parlare ad alta voce potrebbe trasmettere sicurezza, ma anche arroganza, a seconda di chi ascolta. Lo stesso vale per la voce bassa che potrebbe trasmettere sobrietà ma anche insicurezza. Ancora una volta, dipende da chi ascolta.

Nel paraverbale rientrano anche le pause e i silenzi. Anche la giusta modulazione di silenzi e parole può fare la differenza.

 

LE PAROLE CONTANO, ECCOME

Poco fa ti parlavo del fatto che è una minima quota – quella del 7% – assegnata alla componente verbale. In realtà le parole hanno un potere enorme, soprattutto quelle pronunciate dalle persone più importanti della tua vita.

Pensa per esempio alle parole di disapprovazione pronunciate da un genitore o da un insegnante nei confronti di un ragazzino, oppure a un rimprovero del tuo capo, che ti è piombato addosso in un momento in cui eri particolarmente sensibile. Quante di queste parole ti rimbombano ancora oggi nella testa, a distanza di anni? Ma soprattutto, quante ti hanno colpito così in profondità da condizionare le tue relazioni, le tue credenze e il modo in cui ti approcci al mondo?

Vale per le parole negative come per quelle positive, anche se spesso le prime si insinuano nel nostro inconscio più facilmente delle seconde. Le parole sono come semi gettati nel nostro inconscio, che nel tempo generano dei frutti, determinando la persona che oggi siamo.

 

L’IMPORTANZA DI ASCOLTARE ATTIVAMENTE

Ti è mai capitato di incontrare un venditore che ti ha travolto di parole che decantavano le potenzialità del suo prodotto e che non ti ha posto neppure una domanda se non quella decisiva alla fine della sua pappardella? Oppure di andare da un medico che non ti ha neppure lasciato finire di descrivere i tuoi sintomi e si è messo a compilare una ricetta? Oppure ti capita a volte di vedere in televisione delle interviste a politici che fanno lunghi discorsi che non hanno alcuna attinenza con quanto è stato chiesto dal giornalista? Magari tutti e tre questi soggetti si esprimono in modo corretto dal punto di vista lessicale e grammaticale, ma non si può proprio dire che sappiano comunicare in modo efficace.

Sì, perché ciò che li accomuna è l’incapacità di ascolto.

E, contrariamente a quanto si pensa, l’efficacia della nostra comunicazione dipende più dalla nostra capacità di ascoltare che da quella di parlare. Pensaci bene, la maggior parte degli incidenti comunicativi, dei conflitti tra le persone dipendono proprio dall’incapacità di ascoltare. Nel contesto professionale molti errori dipendono dal fatto che le persone non ascoltano, oppure non lo fanno nel modo giusto.

«La gente non ascolta, aspetta solo il suo turno per parlare».
(Chuck Palahniuk)

Perché la gente non ascolta? C’è chi pensa sia una perdita di tempo («Tanto so già cosa deve dirmi») e chi invece non sa bene come farlo. E questo accade nella maggior parte dei casi. Fin dai primi anni di vita, infatti, ci insegnano a parlare, ma non ci insegnano come si ascolta. Come se ascoltare fosse un atto naturale.

Ci insegnano i conflitti e le incomprensioni che possono essere all’ordine del giorno, ma la maggior parte delle persone non sa ascoltare veramente. C’è un altro motivo più profondo per cui la gente non ascolta, un motivo che di solito si fa fatica ad ammettere: non ascoltiamo per soddisfare uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, il bisogno di sicurezza. Sì, perché l’ascolto, quando è reale, profondo o, come vedremo tra poco, attivo, ci porta spesso fuori dalla nostra area di comfort.

Ci porta a contatto con una visione del mondo diversa dalla nostra, talvolta ci impone di ristrutturare la mappa che ci siamo fatti e, nei casi estremi, anche a mettere in dubbio le nostre stesse convinzioni.

Quindi non ascoltare ci consente di restare al sicuro, nella nostra bolla di certezze, nel nostro mondo ben ordinato, dove tutto è al proprio posto. Magari è il posto sbagliato, ma poco importa, l’importante è stare al sicuro. Perché mai allora dovremmo ascoltare?

Se la gente ascoltasse davvero il doppio di quanto è solita parlare ci sarebbero meno conflitti e incomprensioni. Le persone troverebbero non solo le parole, ma anche il modo giusto per trasmettere il proprio messaggio all’interlocutore di riferimento. Troppo spesso comunichiamo agli altri come faremmo con noi stessi.

Ma l’altro è diverso da noi e non possiamo pretendere di trasmettere lo stesso messaggio nello stesso modo a persone diverse. Immagina se il tuo dentista ti spiegasse l’intervento che deve fare per riparare un dente cariato nello stesso modo in cui si esprimerebbe con un collega. Non ci capiresti nulla.

 

I VARI TIPI DI ASCOLTO

In quanti modi possiamo ascoltare? Che domanda? Uno! O si ascolta oppure non si ascolta… verrebbe da dire. In realtà ci sono diversi modi di ascoltare.

Finto ascolto

Tipo di ascolto che si individua subito dall’occhio a pesce lesso dell’interlocutore. È lì davanti a te, tu parli e lui ti guarda in modo perso, magari fa sì con la testa e ogni tanto emette qualche suono di assenso, ma tu potresti anche dire una sciocchezza e lui non se ne accorgerebbe.

È capitato un po’ a tutti di vivere questa esperienza. Immagina la scena: lei parla in continuazione da qualche minuto. Lui la ascolta o almeno così sembra. A un certo punto lei capisce che forse lui sta fingendo e allora chiede:

«Ma mi stai ascoltando?». «Certo cara».

E allora lì la donna tira fuori la maestrina che c’è in lei e chiede a bruciapelo: «Bene, cosa stavo dicendo?». Qualche istante di panico, poi lui recupera la calma insieme alle ultime tre parole di lei registrate nella zona più superficiale del cervello. E bingo! Anche questa volta l’ha fatta franca (ma per quanto funzionerà?).

 

Ascolto selettivo

Dopo il finto ascolto c’è l’ascolto selettivo. È quello tipico di chi ha già in mente la propria risposta e quindi ascolta solo quelle parole che si collegano a essa e magari la supportano. L’ascolto selettivo è interessato ed egocentrico. Non è per nulla orientato a conoscere i bisogni e la posizione dell’altro ma solo a difendere i propri.

 

Ascolto superficiale

È quello di chi recepisce solo il messaggio trasmesso dal linguaggio verbale.

«Tutto ok?».
«Sì, certo».
«Bene».

Poco importa se quel «Sì, certo» non era per nulla pronunciato in tono convinto. Formalmente però la risposta è positiva e per chi ha chiesto «Tutto ok?» è rimasta in superficie. Magari è successo perché non ha saputo cogliere il messaggio non verbale oppure perché gli ha fatto comodo fingere di credere al «Sì, certo».

Spesso le domande «Come va» o «Tutto ok?» vengono usate come formule di rito per iniziare una conversazione e non perché ci sia da parte di chi le pronuncia il reale interesse a sapere se l’altro stia bene o male.

 

Ascolto attivo

Cosa significa ascoltare attivamente? Nell’ascolto attivo si presta attenzione non solo a cosa dice l’interlocutore ma anche a come lo dice. Si presta attenzione al tono per capirne il suo stato emotivo, ma si guarda anche al linguaggio del corpo che può esprimere, come abbiamo visto, approvazione, disapprovazione oppure tensione a sostegno o al di là delle parole.

«Nella comunicazione la cosa più importante
è sentire ciò che non viene detto».
(Peter F. Drucker)

L’ascolto attivo è detto anche empatico.

 

LA PARAFRASI E LE DOMANDE ATTIVE

Abbiamo detto che ascoltare attivamente significa comprendere non solo cosa dice l’interlocutore ma soprattutto come lo dice, cogliendo anche le sfumature del paraverbale e i segnali del corpo. Quindi si ascolta con le orecchie, ma anche con gli occhi e, potremmo dire, anche con la pancia.

Cosa significa ascoltare con la pancia? Significa che spesso, anche quando non osserviamo attentamente il nostro interlocutore per cogliere i segnali del corpo che ci lancia mentre parla, in realtà c’è una parte di noi che avverte quei segnali.

Infine l’ascolto attivo si fa anche con il cuore perché, come abbiamo detto, ci porta nel mondo interiore dell’altra persona, alla scoperta di emozioni, bisogni e desideri.

L’ascolto attivo è anche detto così perché chi lo pratica non è, tanto per dire, passivo, ovvero non si limita ad ascoltare in silenzio ciò che l’altro dice, ma partecipa attivamente, ponendo domande e facendo, di tanto in tanto, una parafrasi di quanto è stato detto dall’altro fino a quel momento.

La parafrasi consiste nel ripetere ciò che ha detto l’interlocutore sintetizzando e sottolineando le parole chiave per lui importanti.

La parafrasi è utile per diversi motivi. Innanzitutto serve proprio per capire se si è compreso ciò che l’altro ha detto. Spesso infatti le parafrasi iniziano proprio così: «Quindi se ho capito bene tu hai detto che…».

Un altro modo per dimostrare attenzione nei confronti dell’altro è fare domande. Saper fare le domande giuste nel momento giusto è una delle doti principali per comunicare in modo efficace ed esistono diversi tipi di domande che sono più o meno adatte a seconda del contesto.

Ci sono le domande chiuse che prevedono solo due tipi di risposte: sì o no.
«Hai finito il report che ti ho assegnato ieri?», «Hai fatto i compiti?», «Usciamo a cena?».

E poi ci sono le domande aperte che prevedono, come suggerisce l’aggettivo, l’apertura a una vasta gamma di possibili risposte. Le domande aperte possono essere a loro volta distinte in dirette, indirette o di stimolo.

Le domande aperte dirette mirano direttamente a una questione. Per esempio: «Perché sei arrivato così tardi?», «Perché avete deciso di cambiare fornitore?».

Le domande aperte indirette sono più generiche e offrono all’altra persona una maggiore libertà di espressione. Per esempio: «Cosa pensi dell’attuale situazione politica?».

Le domande aperte di stimolo invece hanno lo scopo di invitare semplicemente l’altro a parlare. Per esempio: «Come stai?», «Come va oggi?».

Sia le domande aperte che quelle chiuse possono essere neutre o influenzate.

Le domande influenzate sono quelle che inducono l’interlocutore verso un certo tipo di risposta. Ecco un esempio di domanda influenzata: «Cosa le è piaciuto di più di ciò che ha visto finora?».

Questa domanda si basa su un presupposto: ovvero che ci sia qualcosa che è piaciuto al potenziale cliente e quindi con questa domanda il venditore orienta la sua attenzione verso qualcosa di positivo e lo allontana da possibili obiezioni.

“Chi domanda comanda!” recita un detto ed effettivamente le domande sono un prezioso strumento di orientamento del focus sia nel dialogo con gli altri che nel dialogo interno.

Ci sono domande che focalizzano sul problema e altre sulla soluzione, domande che mettono le persone a proprio agio e favoriscono la relazione e domande che trasformano il dialogo in una partita a ping pong.

Un abile comunicatore sa scegliere le domande giuste per ogni contesto, ma soprattutto sa porle nel modo giusto per evitare l’effetto interrogatorio. La cosa importante è conquistare la fiducia dell’altro. Allora potrai porgli tutte le domande che vuoi perché avrà detto sì alla domanda implicita: «Vuoi comunicare con me?».

 

LA MAPPA NON È IL TERRITORIO

Ciascuno di noi ha un carattere e una personalità unici, che ne fanno un individuo autentico. In base al nostro carattere e alla nostra personalità abbiamo un modo di leggere e di vedere il mondo altrettanto unico. La mappa mentale che il mio cervello costruisce nel momento in cui riceve delle informazioni dall’ambiente e le rielabora per interpretarle sarà diversa dalla tua mappa mentale. Si dice che non esistano due mappe mentali identiche, proprio come non esistono due personalità identiche.

Comprendere le mappe mentali della persona con cui stiamo dialogando ci aiuta a entrare in empatia con lei. Con un po’ di attenzione, possiamo osservare il suo linguaggio cerebrale, comprendere come ragiona e come si emoziona, quali sono le sue idee, le sue necessità e i suoi desideri. Solo allora saremo in grado di creare con lei una forte vicinanza comunicativa: la nostra comunicazione si modellerà sul miglior linguaggio possibile per lei e a quel punto riusciremo meglio a trasmetterle, a nostra volta, le nostre idee, le nostre necessità e i nostri desideri.

La PNL ci viene in aiuto proprio perché è la scienza che studia la connessione esistente tra i processi neurologici, il linguaggio e gli schemi comportamentali. Essa parte dall’assunto che ogni attività umana viene attuata dopo essere stata programmata dal cervello, in modo conscio o inconscio.

 

L’INTELLIGENZA PERCETTIVA

Nel corso delle loro ricerche John Grinder e Richard Bandler, i padri fondatori della PNL, osservarono che ogni individuo preferisce adoperare un determinato sistema sensoriale per decodificare gli stimoli esterni. Sebbene ciascuno di noi utilizzi sempre tutti i cinque sensi, ne ha uno che costituisce il suo senso dominante. Possiamo individuare tre differenti intelligenze percettive a seconda dell’organo di senso dominante: intelligenza visiva, intelligenza uditiva e intelligenza cinestesica (o cinestetica).

Utilizziamo le intelligenze percettive un po’ come utilizziamo una lingua: esse diventano il nostro modo per ricevere informazioni e per comunicare con l’ambiente. Per questo, se vogliamo aumentare le nostre capacità di persuasione, dobbiamo imparare a conoscere l’intelligenza percettiva dominante nella persona che abbiamo di fronte e sintonizzarci su di essa.

  • Come percepisce il mondo l’altra persona?
  • Qual è l’organo di senso che utilizza maggiormente per la codifica degli stimoli esterni?
  • Come possiamo relazionarci a lei favorendole un processo di decodifica del nostro messaggio secondo il suo organo di senso dominante?

L’intelligenza visiva

L’intelligenza visiva concerne, ovviamente, la vista. Una persona visiva percepisce il mondo per come lo vede. Quando ricorda, ricorda per immagini. Quando deve spiegarsi, utilizza metafore visive. Quando pensa a qualcosa, lo visualizza. Quando parla con qualcuno, lo guarda negli occhi. Parla velocemente, spesso con raffiche di parole, senza cadenze particolari.

Nell’esprimersi, spesso adotta una gestualità “centrifuga”, ossia con ampi gesti verso l’esterno e verso l’alto, quasi come se volesse disegnare in aria i concetti. Se deve studiare o memorizzare qualcosa, preferisce leggerlo o vederlo. Ama esplorare l’aspetto degli oggetti, osservandoli da più punti di vista. Quando osserva qualcosa, potrebbe essere tanto assorto nella contemplazione da trattenere il respiro.

Una persona visiva cura molto il suo aspetto fisico e il suo vestiario. Ecco alcune delle parole o le espressioni usate da una persona visiva:

«Dare un’occhiata»
«Gettare lo sguardo»
«Secondo il mio punto di vista…»
«Senz’ombra di dubbio»
«Un’idea nebulosa»
«Essere di umore nero»
«A prima vista…»
«Dalla mia prospettiva»
«Lascia che ti illustri»
«Alla luce di…»
«Mettere a fuoco»

In genere tutti i verbi legati alla vista come: mostrare, guardare, riconoscere, intravedere, visionare, contemplare, ammirare, illustrare, ecc.

Come possiamo comunicare con una persona dall’intelligenza visiva?

Semplice: parlando per immagini! Se siamo dei venditori, potremo illustrare il nostro prodotto facendolo vedere o il nostro servizio presentando prospetti, grafi ci o immagini. Se dobbiamo indurla a compiere una scelta, sottolineeremo i vantaggi a livello visivo di quella scelta. Accompagneremo le nostre parole ai gesti delle mani e stimoleremo la persona visiva a visualizzare il tema della nostra discussione.

Ovviamente, anche il nostro lessico si conformerà a quello della persona visiva. Potremo quindi utilizzare frasi del tipo: «Dia un’occhiata a questi prospetti», «Si vede a prima vista che è un’occasione eccellente», «Le illustrerò ogni aspetto nei minimi dettagli», «Questo colore la illumina». Sintetizzando in una massima l’atteggiamento relazionale che dovremmo tenere con una persona visiva: «Parlare poco, mostrare molto».

 

L’intelligenza uditiva

L’intelligenza uditiva è quella che favorisce la decodifica dell’ambiente attraverso il senso dell’udito. Una persona uditiva percepisce il mondo attraverso i suoni. La persona uditiva è un oratore eccellente e quando parla con qualcuno difficilmente lo guarda negli occhi: il suo sguardo è spesso di lato e mentre interloquisce assume una posizione rilassata, magari incrociando le braccia. Quando parla indica spesso l’orecchio e si tocca sovente le labbra. È attenta alle parole che vengono dette, perché a esse attribuisce molto significato. Infatti parla con cadenza ritmata e regolare, quasi soppesasse non solo ogni parola, ma anche ogni pausa di silenzio. Sovente utilizza termini onomatopeici. Riesce a organizzare lucidamente le proprie idee anche nel mezzo di conversazioni infuocate. Di contro, può diventare nervosa se si trova in un ambiente rumoroso.

Se deve studiare o memorizzare qualcosa preferisce leggerlo ad alta voce oppure ama studiare attraverso audiolibri o audiocorsi. Ama la musica, ovviamente, ed è affascinata dai suoni che gli oggetti possono riprodurre. Ha un respiro calmo e regolare. Il tratto tipico di una persona uditiva è la voce: un timbro melodioso, né troppo altro, né troppo basso. Ci accorgiamo di avere ottenuto l’attenzione di una persona uditiva quando inclina la testa di lato, come se parlasse al telefono: è il suo modo di porgere l’orecchio a ciò che stiamo dicendo.

Ecco alcune delle parole o le espressioni usate da una persona uditiva:

«Suona bene» «Suona male»
«C’è armonia, «C’è sintonia».
«Rispondere a tono»
«Prestare orecchio»
«Mettere la pulce nell’orecchio»
«Fare orecchio da mercante»
«Porre l’accento su…»
«Parola chiave»

«Si dice che…»

In genere tutti i verbi legati al senso dell’udito quali: ascoltare, stridere, menzionare, sussurrare, parlare, ecc.

Come possiamo comunicare con una persona dall’intelligenza uditiva?

Per prima cosa dobbiamo dare molto peso a ciò che diremo e utilizzare i giusti termini e i giusti vocaboli in base al loro preciso significato. Sarà opportuno presentare le nostre idee in modo razionale e analitico, un passo alla volta, logicamente.

Se il nostro intento è vendere un prodotto a una persona uditiva sarà importante mettere in risalto tutte le caratteristiche sonore (se esistono) di quel prodotto. Dovremo fare molta attenzione al nostro tono di voce. Allo stesso tempo, una persona uditiva ci prenderà decisamente in simpatia se percepirà che siamo in grado di ascoltarla con attenzione. Se è possibile, potremo parlare con lei in un ambiente silenzioso o con un gradevole sottofondo musicale.

Potremo quindi utilizzare frasi del tipo: «Sono tutt’orecchi per lei», «Le suona corretto?», «Ascolterò con attenzione tutto quanto ha da dirmi». Sintetizzando in una massima l’atteggiamento relazionale che dovremmo tenere con una persona uditiva: «Fare attenzione a ciò che si dice (parole) e a come lo si dice (tono della voce)».

 

L’intelligenza cinestesica

L’intelligenza cinestesica raggruppa tutto ciò che percepiamo attraverso il tatto, il gusto, l’olfatto, le sensazioni, le emozioni e il movimento. Una persona cinestesica è molto facile da riconoscere. Ama la manualità e costruire fisicamente. Rappresenta e memorizza i concetti come fossero sensazioni fisiche. Allo stesso tempo mostra palesemente le sue emozioni e manifesta spontaneamente ciò che sente. Ha una postura del corpo rilassata e si muove con scioltezza.

Anche i suoi movimenti sono pacati, così come la sua gestualità, che è “centripeta”, ovvero rivolta verso sé, quasi volesse “stringere” i concetti. È difficile guardare negli occhi una persona cinestesica, perché spesso punta il suo sguardo verso il basso: significa che è intenta a percepire le proprie sensazioni. In un rapporto interpersonale, chi è cinestesico cerca spesso il contatto fisico con il proprio interlocutore.

Ecco alcune delle parole o le espressioni usate da una persona cinestetica:

«Avere la pelle d’oca»
«Tenere i piedi per terra»
«Non avere peli sulla lingua»
«Avere la puzza sotto il naso»

«Scherzi di cattivo gusto»
«Avere l’acquolina in bocca»
«Fiutare l’inganno»
«Rimanere a bocca asciutta»
«Colpire nel segno»
«Toccare con mano»
«Mettersi nelle sue scarpe, «Mettersi nei suoi panni»

Tutti quei verbi legati alle aree sensoriali cinestesiche: sentire, percepire, commuoversi, procedere, colpire, attaccare, emozionarsi, toccare, ecc.

Come possiamo comunicare con una persona dall’intelligenza cinestesica?

Una persona cinestesica preferisce esperienze pratiche e attività che permettono di vivere l’esperienza. Pertanto, se dovremo sostenere una tesi di fronte a lei, sarà bene che le permettiamo di verificarla attraverso una dimostrazione reale, magari coinvolgendola attivamente.

Presentandole un progetto, lasceremo che la persona “afferri” in mano il report che abbiamo preparato. Se le stiamo presentando un prodotto, la inviteremo a provarlo. Dovremo sottolineare le qualità di ciò che proponiamo e, se il contesto lo permette, potrebbe essere utile accompagnare le nostre parole con gesti, contatto o azioni fisiche.

Potremmo inoltre utilizzare frasi del tipo: «Vorrei sensibilizzarla su questo punto», «Sente che può esserle utile?», «Trattare con lei è molto piacevole e mette a proprio agio». Sintetizzando in una massima l’atteggiamento relazionale che dovremmo tenere con una persona cinestetica: “Ogni nostra frase, gesto o spiegazione dovrà essere collegata a un’emozione”.

 

ENTRARE IN RAPPORT

Calibrare il tuo interlocutore significa prestare attenzione non solo alle sue comunicazioni verbali ma soprattutto a quelle paraverbali e non verbali. La calibrazione del sistema rappresentazionale del tuo interlocutore è quindi un processo che include il riconoscimento di tutti questi aspetti per comprendere lo stato emotivo di chi hai di fronte e creare ciò che in PNL viene definito rapport, ossia un rapporto segnato da “armonia, concordanza, accordo, affinità”.

Entrare in rapport con una persona significa essere sulla sua stessa lunghezza d’onda, assicurandosi quindi una comunicazione più semplice, rilassata ed efficace. Le chiavi per ottenere questo obiettivo sono due: l’ascolto attivo e il ricalco.

Ora che abbiamo fatto la distinzione tra visivo, auditivo e cinestesico posso sfatare un mito.
Probabilmente avrai già sentito frasi come: «Guardami quando ti parlo!». Questa frase si basa sul presupposto errato che se una persona non ci guarda negli occhi non ci sta ascoltando con attenzione.

In realtà è stato recentemente dimostrato che quando una persona guarda intensamente l’altra negli occhi riduce la sua capacità di ascolto. Del resto, l’auditivo, che più di tutti è quello più portato all’ascolto, solitamente non guarda l’interlocutore negli occhi e predilige prestare orecchio a quello che dice e al modo in cui lo dice. Quindi la sua testa è leggermente spostata di lato.

Il secondo strumento di cui ti puoi servire per entrare in rapport con qualcuno è il ricalco, una strategia che proviene da Milton Erickson, che era in grado di trattare con successo anche pazienti altamente resistenti con i quali altri terapeuti avevano fallito.

Il ricalco è una tecnica molto nota della PNL che si traduce nel riproporre alcuni elementi del comportamento della persona con cui vuoi entrare in sintonia, tra cui, per esempio, lo stato d’animo, la postura, i gesti, la mimica facciale, il tono della voce, le opinioni o addirittura il ritmo del respiro.

Ricalcare una persona significa quindi «andare incontro all’altra persona nel punto in cui lui o lei si trova, riflettendo quello che lui o lei sa o presuppone sia vero, o accordarsi con alcune parti dell’esperienza che lui o lei sta vivendo» (Jerry Richardson).

È Milton Erickson a fornirci l’esempio di un ricalco perfetto, attuato in occasione di un incidente occorso al suo figlioletto di tre anni, che cadde dalle scale rompendosi il labbro e traumatizzando un dente dell’arcata superiore. Puoi immaginare il pianto del bimbo, e le sue urla di dolore e spavento alla vista del sangue sul pavimento.

La prima cosa che fece Erickson fu appunto ricalcare lo stato d’animo del bambino con due semplici frasi: «Fa un male terribile, Robert. Fa un male terribile…», seguita da «e continuerà a farti un gran male…».

Solo dopo aver stabilito un punto di contatto con il figlio, attraverso la piena comprensione del suo dolore, Erickson riuscì a far focalizzare il piccolo verso qualcosa di diverso dal male che pur provava ancora: insieme alla moglie, che era accorsa insieme a lui in soccorso del bambino e gli resse poi il gioco, finse di dover analizzare la qualità del sangue sparso sul pavimento, per accertarsi che fosse “buono, rosso e forte”. Il piccolo, incuriosito, smise di piangere, lasciandosi così guidare sempre più lontano dal trauma.

Così puoi fare tu, ricalcando le opinioni dell’altro, prima di condurlo sul tuo terreno di gioco.
Se proprio non ci fosse niente da ricalcare e la vostra conversazione procedesse su due livelli differenti, puoi almeno scegliere di ricalcarne le sensazioni, utilizzando la frase:

«Se fossi al tuo posto, mi sentirei proprio come te».

 

CONCLUSIONE

Un abile comunicatore è colui che riesce a trasmettere il proprio messaggio al proprio interlocutore nel modo giusto.

E, giunti alla fine di questa guida sulla comunicazione efficace, è assolutamente chiaro che non c’è un modo giusto in assoluto per dire le cose. Il modo giusto ce lo suggerisce il nostro interlocutore. Nella comunicazione c’è sempre l’incontro di due mappe del mondo che possono essere più o meno simili ma non saranno mai perfettamente identiche. È questa differenza che “complica” le cose. E quanto più facciamo valere la nostra mappa come l’unica possibile, tanto più corriamo il rischio di costruire dei muri tra noi e l’altra persona.

Alla fine la dote più importante di un abile comunicatore sta in questo: abbattere muri e costruire ponti su cui gli altri hanno il piacere di passare dalla sua parte o anche solo di fermarsi a metà per un piacevole scambio.

L’uomo è un animale sociale, vive di relazioni. La qualità della sua vita dipende proprio dalla qualità delle relazioni che ha con gli altri esseri simili a lui. E la qualità delle nostre relazioni non dipende tanto dalla fortuna di trovare persone con cui ci troviamo bene e con cui è un piacere avere a che fare, ma dalla nostra capacità di comunicare con qualsiasi tipo di persona: dall’amico con cui siamo in perfetta sintonia al collega con cui magari non abbiamo nessun feeling.
È proprio con persone distanti dal nostro stile comunicativo che si misura la nostra abilità di comunicare.

Non possiamo dare il meglio di noi rimanendo isolati. Questo vale ovunque, in famiglia, con gli amici, a maggior ragione sul lavoro. Non a caso la capacità di fare squadra è una delle competenze più richieste negli annunci di ricerca di lavoro a tutti i livelli e le capacità di guidare, oltre che di costruire, un team sono determinanti per la scelta di persone a cui affidare posizioni manageriali in azienda.

«Non la finanza. Né la strategia. Né la tecnologia.
È il lavoro di squadra il vantaggio competitivo fondamentale».

Con questa affermazione si apre “La guerra nel team”, il best seller mondiale scritto dal consulente e speaker americano Patrick Lencioni, considerato uno dei massimi esperti in materia. Lencioni precisa anche che il lavoro di squadra è il vantaggio competitivo fondamentale perché è tanto potente quanto raro. Se così non fosse, d’altra parte, non si organizzerebbero così tanti corsi di team-building nelle aziende di tutto il mondo. Come diceva già il filosofo greco Aristotele, l’uomo è un “animale sociale”, e quindi naturalmente portato a stare in gruppo, ma ciò non significa che sia così naturalmente portato al lavoro di squadra.

In questa guida scoprirai la differenza tra un “gruppo” e una “squadra”, quali sono i sintomi più comuni della malattia del team, come dev’essere e cosa deve fare un team leader, ovvero una persona competente e consapevole di come si gestiscono i conflitti. Comprese alcune indicazioni sperimentate ed efficaci su come dedicare tempo a formare la tua squadra vincente!

Ecco l’indice della guida:

IL LIVELLO DI SALUTE DEL TUO TEAM

L’influenza dell’ambiente su comportamento e benessere
La differenza tra essere un gruppo o un team
Meglio nascondersi per paura del conflitto

QUANDO IL TEAM NON FUNZIONA

Assenza di FIDUCIA
Paura del CONFLITTO
Mancanza di IMPEGNO
Fuga dalle RESPONSABILITÀ
Disinteresse verso i RISULTATI
Un set di domande per riflettere sul tuo team

LE COMPETENZE PER GUIDARE UN TEAM

Soluzione di problemi complessi
Abilità di giudizio e di analisi
Intelligenza emotiva
Orientamento al risultato
Abilità di comunicazione
Flessibilità cognitiva
Iniziativa e capacità di prendere decisioni
Resilienza come risposta al fallimento

DEDICA TEMPO A FORMARE IL TUO TEAM

Il training strutturato
Sei pronto per il tuo training plan?
Le regole per un training efficace
L’identità di un team ben formato
Dalla squadra al singolo: il coaching
Le fasi del coaching strutturato
Supporto per superare i momenti di stop

 

IL LIVELLO DI SALUTE DEL TUO TEAM

Se stare in gruppo soddisfa uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, il bisogno di unione, dall’altro lato lavorare in squadra richiede la capacità di mettersi in gioco, di uscire dalla zona di comfort degli schemi mentali personali che invece soddisfano un altro bisogno fondamentale dell’essere umano: quello della sicurezza. Quanto più è rigida la zona di comfort dei suoi membri, tanto più è precario il livello di salute del team.

Nella mia esperienza ho lavorato con team aziendali e sportivi di grande prestigio e ogni volta ho potuto constatare che i risultati di una squadra sono in diretta proporzione del suo stato di salute. Un team malato produce solo risultati scarsi, indipendentemente dal talento e dal livello di esperienza dei suoi singoli elementi.

Questo perché un team è qualcosa di più della semplice somma delle persone che lo compongono, è una realtà complessa in cui ogni parte deve procedere in modo armonico nella medesima direzione. Ciò che fa la differenza è il modo con cui i membri del gruppo si relazionano e operano insieme: dal tipo di relazione che si instaura tra loro, dipende il livello di salute del team.

 

L’INFLUENZA DELL’AMBIENTE SU COMPORTAMENTO E BENESSERE

Come ben sai l’ambiente non è un concetto solamente fisico, costituito dagli spazi e dagli oggetti che ci circondano. In questa guida mi interessa parlarti dell’ambiente personale, dell’ambito composto da tutte le persone che ci stanno intorno e che, per un motivo o per l’altro, si relazionano con noi.

L’ambiente così inteso ha un’influenza enorme sul nostro comportamento e sul nostro benessere, sia in positivo che in negativo. Se, infatti, vivi in un ambiente stimolante, pieno di input di crescita e sviluppo personale e collettivo, hai la possibilità di evolverti e di raggiungere tutti i tuoi obiettivi di successo. Se, al contrario, vivi in un ambiente “tossico”, dove tutto ciò che ti circonda ti ruba energia e motivazione, ti ritroverai ben presto a vivere una vita di sopravvivenza, trascinandoti giorno dopo giorno lontano dai tuoi obiettivi.

La consapevolezza dell’influenza che l’ambiente ha sulla tua persona può spaventare, ma la notizia positiva è che tu puoi scegliere in quale ambiente vivere. E ovviamente di quale team circondarti o fare parte. Sei tu che, nel momento in cui ti accorgi della negatività dell’ambiente che ti circonda, puoi decidere di “cambiare aria” e cercare un ambiente diverso oppure utilizzare le tue energie e le tue risorse per rendere il team di cui fai parte più potenziante!

Per fare entrambe le cose ci vuole impegno e, molto spesso, le persone preferiscono lamentarsi della situazione in cui vivono anziché fare qualcosa per cambiarla. Cambiare ambiente non è facile, anche perché chi decide di cambiare trova sempre diverse spinte contrarie che faranno di tutto per impedirgli di farlo.

 

LA DIFFERENZA TRA ESSERE UN GRUPPO O UN TEAM

Non sono le affinità caratteriali o di competenza e interesse dei membri che contraddistinguono un team. Non basta neppure uno status in comune. D’altronde gli abitanti della stessa città o gli inquilini dello stesso palazzo non sono un team, sono solo un gruppo di persone che hanno qualcosa in comune. C’è una bella differenza tra essere un gruppo o un team!

In molte aziende ci sono gruppi di persone accomunate dal fatto di lavorare nello stesso luogo, magari anche dal fatto di avere lo stesso capo e sono “team” solo sulla carta, ma non di fatto perché in realtà ciascun membro porta avanti il proprio lavoro con l’unico obiettivo di raggiungere il budget personale (nel caso di venditori) oppure di smarcare una lista di cose da fare o, peggio ancora, di arrivare semplicemente a fine giornata.

«Un team è un gruppo di persone
che può avere caratteristiche diverse,
ruoli e funzioni diversi.
Ma avrà obiettivi comuni,
responsabilità e valori condivisi»

Il valore di un team non è riducibile alla somma del valore dei suoi membri. Un team che funziona è sinergico e la somma del valore dei singoli membri si eleva in modo esponenziale con il risultato che 1+1 dà sempre molto più di 2.

In team le persone diventano più creative, perché possono condividere e mettere a fattor comune le proprie idee. Diventano più intelligenti, più “smart”, perché possono scambiarsi informazioni e conoscenze e quindi risparmiare tempo. Diventano anche più performanti perché si stimolano a vicenda. E alla fine producono sempre qualcosa che non avrebbero potuto produrre singolarmente, neppure se avessero avuto molto più tempo a propria disposizione.

 

MEGLIO NASCONDERSI PER PAURA DEL CONFLITTO

Purtroppo non sempre nei team 1+1 dà più di 2. Ci sono casi in cui questa somma dà addirittura meno di 2. Ci sono team dove le capacità delle persone non si elevano ma, al contrario, vengono soffocate per mancanza di fiducia, per paura di sbagliare o, peggio ancora, per paura di essere “troppo bravi”.

Perché essere troppo bravi talvolta può suscitare le invidie dei colleghi o addirittura dei propri capi che preferiscono avere collaboratori “bravini” per stare tranquilli. Un leader incapace, insicuro, genera facilmente situazioni di questo tipo: sono i cosiddetti manager “di plastica”, belli fuori ma vuoti dentro.

In molte aziende poi ci sono persone che attuano curiose forme di mimetismo con le pareti e le scrivanie nel tentativo di fuggire alle responsabilità. Anche in questo caso, le persone lavorano come se avessero il freno a mano tirato e, di conseguenza, l’intero team si muove al ritmo di un pachiderma. La paralisi o il rallentamento del team spesso è riconducibile a conflitti mal gestiti o latenti. Spesso si preferisce una logorante “guerra fredda” fatta di frecciatine e piccoli sgambetti e di email con mezze accuse inviate in copia conoscenza a mezza azienda pur di evitare un conflitto aperto.

Sì, perché il conflitto aperto fa paura. La maggior parte delle persone evita il conflitto aperto perché teme di poter perdere qualcosa: tempo, risorse, oppure addirittura il ruolo e il lavoro. Ecco perché spesso si gioca in difesa, la difesa del proprio interesse personale. E ci si dimentica che il miglior modo per fare il proprio interesse personale è fare il bene del team.

Laddove i membri di un team sono focalizzati sui propri risultati personali – anziché su quelli del team – ci sono buone possibilità che il risultato della somma 1+1 sia inferiore a 2, indipendentemente dal talento dei singoli elementi del team.

Così come nello sport non basta mettere insieme i più grandi giocatori del mondo per avere una squadra vincente, allo stesso modo in un team di lavoro non conta solo il talento, il livello di preparazione e l’esperienza dei singoli individui. Conta la strategia, contano gli scambi tra i vari membri del team e l’allineamento.

 

 

QUANDO IL TEAM NON FUNZIONA

Patrick Lencioni, consulente americano specializzato nello sviluppo di team e nella salute delle organizzazioni, è autore di diversi saggi. Fra questi “La guerra nei Team”, nel quale propone cinque caratteristiche per costruire una squadra efficace e coesa.

In un team efficace, i membri:

  • Si fidano uno dell’altro
  • Sono capaci di usare in modo produttivo il conflitto d’idee
  • Si dedicano alle decisioni e agli obiettivi concordati
  • Si ritengono reciprocamente responsabili rispetto ai piani d’azione
  • Si concentrano sul raggiungimento degli obiettivi di business comuni

Secondo l’approccio provocatorio di Lencioni, vi sono 5 potenziali disfunzioni in ogni team, strettamente connesse tra loro in un rapporto di dipendenza. Ecco i sintomi più comuni della malattia del team:

  • I membri non si fidano gli uni degli altri
  • Si preferisce la “guerra fredda” pur di evitare il conflitto aperto
  • Non è ben chiaro chi deve fare cosa, ossia quali sono le responsabilità di ciascuno
  • Quando gli obiettivi non vengono raggiunti si innesca il gioco delle colpe
  • C’è una scarsa attenzione ai risultati dell’intera squadra

ASSENZA DI FIDUCIA

Alla base della piramide si trova l’assenza di fiducia tra i membri del team. Senza fiducia reciproca, Lencioni sostiene che è difficile parlare di squadra, visto che i componenti (in guerra tra loro) non riusciranno a lavorare insieme in maniera efficace.

La sfiducia può derivare da una mancanza di conoscenza tra i membri, in particolare delle vulnerabilità proprie e altrui. Nel nostro team infatti ci aspettiamo che gli altri siano invulnerabili, competenti, forti e perfetti. Se riscontriamo incoerenza e incapacità nel mantenere gli standard qualitativi, allora ci chiudiamo con atteggiamento difensivo senza più chiedere aiuto agli altri.

Risultato? Nessuno si supporterà a vicenda, né si scambierà più esperienze. Invece di “pensare male”, dovremmo iniziare ad ammettere gli errori e ad accettare feedback sul nostro comportamento: solo così capiremo che le intenzioni degli altri membri del team sono positive e costruttive.

 

PAURA DEL CONFLITTO

Il confronto deve essere vissuto come occasione di crescita. Purtroppo però a nessuno piace discutere, meno che mai quando si ha paura di perdere o di dover ammettere di aver sbagliato. Al contrario, il desiderio di preservare un’armonia artificiale sopprime i conflitti e i dibattiti spontanei e appassionati.

Ma evitare il conflitto, che quando è produttivo è uno degli ingredienti chiave per il successo di un gruppo, non serve. Se non sfocia in ambiti personali, legati ai valori o all’aspetto fisico, e ci si considera tutti sullo stesso piano, allora il conflitto costruttivo farà scattare una fiducia basata sulla reciproca vulnerabilità. Una discussione, finalmente alleggerita dalle diffidenze, potrà focalizzarsi soltanto sulle idee.

 

MANCANZA DI IMPEGNO

C’è impegno quando le regole del gioco sono chiare, condivise e frutto dell’apporto individuale di ognuno. Spesso la carenza di impegno è generata da una mancata chiarezza o dal mancato coinvolgimento nel perseguire risultati comuni.

Ciò deriva dal fatto che le persone, non esprimendo apertamente le proprie opinioni, non fanno emergere il disaccordo. D’altronde coloro che non riescono a esprimere la propria opinione e non vengono ascoltati, difficilmente faranno propria una decisione altrui.

La mancanza di impegno provoca ambiguità: i membri del gruppo, una volta lasciata la discussione, potrebbero non rispettare le decisioni prese dal gruppo, o addirittura promuoverle facendole passare come proprie. Viceversa i team produttivi creano decisioni e piani d’azione chiari e sono certi di avere il supporto di ogni membro della squadra.

 

FUGA DALLE RESPONSABILITÀ

Il piano d’azione? Deve essere chiaro: chi fa cosa e quando è alla base di ogni team efficace. Lencioni – che non considera il senso di responsabilità come un fatto esclusivamente individuale – in base all’assioma secondo cui “la velocità di un’organizzazione equivale a quella del suo membro più lento”, sostiene che per mantenere elevati gli standard qualitativi del lavoro è necessario che i membri del gruppo si richiamino reciprocamente alle rispettive responsabilità.

Così ci si assicura che chi ha performance più basse rispetto al resto del gruppo senta sempre la pressione a migliorare: mettere in discussione l’approccio degli altri, farà sì che i problemi vengano identificati prima. Ma un team inizia a funzionare male quando i membri tendono a evitare il disagio generato dal dover richiamare un altro collega relativamente ad azioni e comportamenti controproducenti rispetto all’obiettivo comune.

Se la gente inizia a non sentirsi coinvolta come parte integrante del processo di definizione del piano, allora nessuno si prenderà delle responsabilità. Tutti staranno a guardare, scaricando le proprie responsabilità verso gli altri. Alla fine la mancanza di responsabilità determinerà bassi standard di qualità.

 

DISINTERESSE VERSO I RISULTATI

Ogni membro deve contribuire al successo del team e anteporlo a quello personale. In generale, la presenza di disfunzioni determina una mancanza di attenzione per i risultati comuni: anteponendo l’obiettivo del singolo, nessuno riuscirà più a concentrarsi sul raggiungimento del successo collettivo.

Lencioni posiziona questa disfunzione sulla punta della piramide: il raggiungimento dei risultati (anche quelli intermedi, in funzione del raggiungimento dell’obiettivo finale) rappresenta il fine ultimo dell’esistenza stessa del gruppo.

 

UN SET DI DOMANDE PER RIFLETTERE SUL TUO TEAM

Probabilmente leggendo le varie disfunzioni del team avrai riflettuto sullo stato di salute del tuo team. Ecco allora alcune domande che possono servire per capire ancora meglio lo stato di salute di un team e cosa può fare il leader per evitare quelle disfunzioni, mettendo la sua squadra nelle condizioni giuste per vincere.

Queste domande fanno parte dei principi della socievolezza elaborati da Dale Carnegie, fondatore della prima scuola di risorse umane del mondo, la Dale Carnegie Training, e autore del famoso libro “Come trattare gli altri e farseli amici”.

  • Nel tuo team c’è senso di appartenenza?
  • I tuoi collaboratori sono soddisfatti del vostro rapporto?
  • Quanto tempo dedichi a comprendere le motivazioni che hanno spinto qualcuno a dire o fare una certa cosa?
  • Quanto riesci ad ascoltare attivamente le persone, dimostrando sincero interesse e prestando attenzione alle piccole cose?
  • Sei abile a chiarire bene le aspettative fin dall’inizio?
  • Sei una persona che promette o una che realizza?
  • Riesci a mantenere gli impegni presi e a fare ciò che hai detto?
  • Quando è necessario, sei in grado di scusarti sinceramente e onestamente?
  • Sai essere disponibile quando serve, sapendo dire di “no” quando è utile?
  • Confondi gli sforzi (anche a vuoto) con i risultati?

 

LE COMPETENZE PER GUIDARE UN TEAM

Il management è quell’arte che si occupa di fare in modo che le cose vengano realizzate. Sono i manager e gli imprenditori, con l’aiuto della propria squadra di persone, a decidere gli obiettivi e ad assicurarsi che vengano raggiunti. In base alla capacità di leadership, gestiscono le cosiddette “risorse” occupandosi di processi, di eventi contingenti e di programmi pianificati. In un’impresa, sia essa grande o piccola, il manager è importante – e viene pagato di conseguenza – perché ha la responsabilità finale rispetto agli obiettivi che deve raggiungere insieme al suo team.

Oggi però il mondo del lavoro è totalmente cambiato: non basta più la qualità, non è sufficiente mettere sul mercato un buon prodotto o un ottimo servizio per avere successo. La differenza ora si misura sull’atteggiamento mentale di chi dirige un’impresa, sulle convinzioni che lo sostengono, sulla flessibilità e sulla valorizzazione dei punti di forza. Sulla capacità di orientamento verso un obiettivo e sulla gestione delle emozioni. Sull’attitudine a cambiare velocemente e sul riuscire a guidare il proprio team nel fare questo.

Che caratteristiche deve avere il leader di un team? Per esperienza, un leader che gestisce una squadra, prima ancora di “saper fare” deve dimostrare a se stesso di “saper essere”. Esistono cioè delle qualità importanti che vanno coltivate, sviluppate e modificate in base ai tempi e ai contesti in cui ci si trova a svolgere il proprio lavoro.

Vediamo allora quali siano le skill fondamentali che non possono mancare nel bagaglio di colui che per mestiere deve guidare una squadra verso gli obiettivi.

 

SOLUZIONE DI PROBLEMI COMPLESSI

Nessuno vuole problemi, tutti vogliono soluzioni. Soprattutto i manager e gli imprenditori, e soprattutto se i problemi sono complessi. Ciò che sarà sempre più richiesto, nelle aziende così come in generale nel mondo del lavoro, è la capacità di avere molteplici approcci per arrivare al risultato, per far crescere la visione del futuro.

Il cosiddetto “Problem solving” è dunque l’abilità di reperire e analizzare – con uno sguardo esterno e creativo – tutte le informazioni disponibili, per arrivare a definire la scelta migliore in base ai fatti conosciuti, al contesto e alle eventuali conseguenze. Le aziende cercano persone in grado di trovare soluzioni semplici a problemi complessi. Se gli scenari diventano complicati e interconnessi fra loro, giocoforza le strade dovranno essere nuove, diverse dal passato. Più numerose, imprevedibili. E quando è necessario, rischiose.

Saper infondere al proprio team la cultura del Problem Solving equivale a strutturare un atteggiamento mentale utilissimo alla tua squadra: ognuno di loro si sentirà meno solo di fronte alla complessità, perché si sarà diffusa la credenza di far parte di un gruppo di gente che non si arrende. Che si ingegna quando… il gioco si fa duro!

 

ABILITÀ DI GIUDIZIO E DI ANALISI

Un manager mentalmente elastico è più abile di un altro nel cogliere i nessi tra i vari aspetti di una questione per risolvere i problemi. Sviluppare l’elasticità mentale e la capacità di giudizio ti aiuterà a scomporre, decodificare e analizzare gli elementi di un contesto per comprendere la sua natura. E generare così nuovi legami (tra i progetti, tra i team, a livello organizzativo) più in linea con la realtà che ti circonda.

 

INTELLIGENZA EMOTIVA

La capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie emozioni e quelle degli altri – di fatto lo sviluppo della propria Intelligenza Emotiva – può fare davvero la differenza in qualunque ambito professionale. Grazie ad alcuni studiosi, primo tra tutti Daniel Goleman, oggi conosciamo i meccanismi che regolano le nostre emozioni e proprio per questo siamo potenzialmente in grado di governarli. Oggi sappiamo di essere noi i responsabili del nostro stato emotivo, abbiamo il potere di gestire le nostre emozioni e possiamo uscire da stati “emozionali negativi” nel momento in cui diventano un ostacolo.

 

ORIENTAMENTO AL RISULTATO

I manager hanno la missione di arrivare al traguardo e assumersi la responsabilità di conseguire gli obiettivi stabiliti. L’attitudine nei confronti della competizione è fondamentale per avere successo, così come il sapere con chiarezza la distanza dai propri traguardi e il percorso per arrivare a destinazione. Vince Lombardi, allenatore di football americano negli anni ‘60 e grande motivatore, diceva ai suoi giocatori che “Vincere è un’abitudine, come pure perdere”. La vittoria, sosteneva, è fatta di comportamenti eccellenti ripetuti costantemente.

 

ABILITÀ DI COMUNICAZIONE

Essere capaci a trasmettere informazioni in modo efficace, semplice e persuasivo è ciò che fa davvero la differenza per un team leader. Un manager competente non può sottrarsi a un continuo processo di miglioramento su questo fronte: non può non saper comunicare con efficacia nelle riunioni ristrette con i collaboratori, negli speech davanti a una platea più vasta, nella comunicazione scritta che viaggia sul filo della tecnologia. Aver fatto un buon lavoro, non basta. Saper gestire le relazioni (con il team e non solo) non basta. Saper coordinare le risorse a disposizione (budget, attrezzature, luoghi, logistiche) non basta. Tutto questo va comunicato, spiegato, illustrato: con chiarezza, sintesi ed efficacia. Altrimenti qualcun altro lo farà al posto tuo. E tu perderai il controllo.

 

FLESSIBILITÀ COGNITIVA

Nella visione manageriale del terzo millennio, essere “Adaptive” non significa reagire passivamente al cambiamento, né modificare le strategie in chiave difensiva solo per parare i colpi che arrivano dalle variabili del mercato. Be Adaptive vuol dire invece concepire le singole sfide come un’opportunità di crescita e momento di riprogrammazione positiva. Di fatto come leva per innovare, per rimodulare quel giusto percorso che consente a una impresa di raggiungere traguardi importanti e redditizi.

 

INIZIATIVA E CAPACITÀ DI PRENDERE DECISIONI

Tutti nella nostra vita professionale attraversiamo momenti difficili. La differenza tra gli individui spesso si misura valutando le loro decisioni in quegli istanti di difficoltà. Ci sono manager che di fronte al proprio team decidono di utilizzare la crisi come stimolo per cambiare, come avventura verso l’ignoto come opportunità di crescita. Altri invece, disponendo di minore leadership personale, si mostreranno immobili, iniziando a lamentarsi e facendo opera di auto-commiserazione. Saprai bene che è in quei momenti che la squadra misura l’abilità del proprio “capitano”: in quegli istanti il capo deve decidere, e le sue gesta sono al centro dell’attenzione di una “truppa” che a volte è allo sbando per la “botta” ricevuta.

 

RESILIENZA COME RISPOSTA AL FALLIMENTO

Anche nelle storie l’eroe non è la persona che non sbaglia, che non commette mai errori: è invece colui che sa rialzarsi dopo una caduta, che sa scrollarsi di dosso la polvere della battaglia per ripuntare lo sguardo verso il nuovo scenario. Coltivare una capacità di resilienza sul lavoro significa riuscire ad affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di crisi, riorganizzando positivamente la propria squadra anche di fronte a periodi difficili.

 

 

DEDICA TEMPO A FORMARE IL TUO TEAM

Conoscerai la storia del giovane taglialegna di fronte a una catasta enorme da spaccare. Il lavoro diventava sempre più faticoso e servivano sempre più colpi per tagliare ogni tronco. Più si impegnava, più sembrava che i suoi sforzi fossero inutili. Faceva il triplo della fatica con la metà del risultato. Tutto quello che poteva fare era spingere la sega con più veemenza nel legno.

Si trovò a passare di lì un altro taglialegna, molto più anziano ed esperto. Questi vide la fatica che stava facendo il giovane e allora da lontano gli urlò: «Affila la lama!!!». Per tutta risposta, il giovane rispose: «Ma cosa dici vecchio? Non vedi quanta legna ho da tagliare, non ho tempo per fermarmi ad affilare la lama!».

Sappiamo che nella nostra professione quando “affiliamo la lama”, l’efficacia di ogni azione aumenta di colpo, diminuisce impegno fisico e si riduce il tempo impiegato per le varie attività. Quante volte capita di sentir dire in azienda: «Non c’è tempo per la formazione». In molte aziende il training viene visto come un’interferenza con il proprio lavoro e quindi una sostanziale perdita di tempo. In ogni caso, secondo molti manager, i collaboratori non sarebbero in grado di apprezzarlo. È esattamente l’atteggiamento del taglialegna che va avanti con una lama non affilata, quando invece il training attiva un processo di miglioramento profondo e continuo. Fare formazione serve proprio per affilare la lama ricominciare poi in maniera più produttiva.

Certo, poi c’è formazione e formazione.

 

IL TRAINING STRUTTURATO

Un percorso di training diventa strutturato quando è un processo continuo e non occasionale, i collaboratori non si sottraggono, il programma è preciso e organizzato di argomenti che vengono portati in aula. Vediamo quali sono i vantaggi:

Il training definisce gli standard.
Un training efficace deve fissare degli standard al di sotto dei quali le performance non sono accettabili. Questo permette di avere un’idea chiara non solo di dove vogliamo arrivare ma anche di dove siamo, dandoci la possibilità di identificare le aree su cui dobbiamo migliorare.

Il training fa guadagnare.
Immagina di allenare i tuoi venditori a rispondere alle obiezioni su un prodotto o di formare i tuoi responsabili di area in modo che il loro lavoro sia più produttivo ed efficiente. Non credi che tutto questo si traduca in maggiori risultati in minor tempo? Il training è focus consapevole sul problema e azioni massicce per il miglioramento.

Il training aiuta in periodi di crisi.
Nei momenti difficili capita che le persone si contagino in un mood di vittimismo da cui è difficile uscire, con evidenti ripercussioni sul morale generale e sui risultati. Un buon training permette di supportare gli stati d’animo dei collaboratori e di orientarli verso le leve del miglioramento, non solo a livello dei singoli ma di squadra nel suo complesso, facendoli concentrare sulle possibili soluzioni anziché sul problema.

Il training è la chiave per acquisire nuove abilità.
Attraverso il training è possibile allenare un comportamento, un atteggiamento o una capacità rispetto a una determinata situazione attraverso un confronto costante con la squadra, senza lasciare il singolo abbandonato a se stesso.

 

SEI PRONTO PER IL TUO TRAINING PLAN?

A questo punto ti invito a stendere il tuo training plan, e per farlo ti suggerisco di farti guidare dalle seguenti domande:

WHO: quali persone e/o dipartimenti della tua azienda vuoi coinvolgere?

WHAT: quale training vuoi far partire? Cosa vuoi far apprendere alle persone? Cosa vuoi stimolare? Cosa vuoi che ricevano?

WHY: perché? Quale impatto vuoi generare con questo training?

WHEN: quando e con quale frequenza vuoi che i tuoi collaboratori vengano sottoposti a training?

WHICH: quale metodologia userai per gli argomenti prescelti?

 

LE REGOLE PER UN TRAINING EFFICACE

Ecco quali sono gli aspetti da tenere in considerazione quando si pianifica un processo di training:

1. Scegli il team e il team leader corretti
È fondamentale, altrimenti rischi di trovarti in aula con persone che non si sentono coinvolte dall’argomento, che non saranno quindi motivate e che farai fatica a far partecipare in aula. Il team leader deve essere percepito come una persona che ha competenze sull’argomento e gli altri partecipanti devono riconoscerne il ruolo. Deve trasmettere le sue convinzioni e il valore del training: quindi il suo atteggiamento, anche in termini di puntualità e affidabilità, deve essere impeccabile.

2. Usa strumenti di supporto al training
Parole, parole, parole. I trainer che si basano solo sulla comunicazione verbale rischiano di trovarsi di fronte un pubblico che dopo poco non riuscirà più a seguire, perché la nostra mente fatica a elaborare e far propri concetti astratti slegati da qualunque immagine. Per questo l’uso di supporti visivi come i video e le slide sono fondamentali per la buona riuscita di un training. La lavagna serve a fissare le parole chiave, usare disegni o grafici, nel caso delle slide invece è importante che siano supportate dalle immagini.

3. Stabilisci i tempi di lavoro all’interno del training
Gestire correttamente il tempo ti permetterà di scandire un ritmo adeguato in termini di riflessione, analisi della situazione e di quanto emerso dal training stesso. È fondamentale prevedere dei tempi di lavoro individuale o di gruppo su alcuni temi importanti per dare ritmo con l’alternarsi di domande, risposte e interazioni dei partecipanti, in modo da tenere costantemente alta la curva dell’attenzione.

4. Mantieni un focus costante sugli obiettivi e sulle priorità
Alla fine di un momento di training occorre stabilire le linee guida per il futuro, dando istruzioni precise ai partecipanti e stabilendo cosa va o non fa fatto. Il trainer fa in modo che, esattamente come alla fine di una riunione produttiva, tutto il team sia allineato su quello che è emerso e sui successivi step in ordine di priorità.

 

L’IDENTITÀ DI UN TEAM BEN FORMATO

Ci si accorge immediatamente quando si ha a che fare con un’azienda che fa training. Le persone sono sicure di loro stesse, gestiscono situazioni anche complesse con fluidità, è visibile il lavoro di squadra e si percepisce la cultura d’impresa.

In poche parole sono aziende che realizzano un modello unico e irripetibile definendo in modo chiaro ed efficace la loro storia, i loro valori, la loro vocazione, la loro immagine: in un’unica parola la loro identità.

È quello che succede per esempio quando vai in un Apple Store. È tangibile come un costante lavoro di formazione interna faccia la differenza per creare quella che è una vera e propria filosofia, che i dipendenti riescono poi a trasferire ai clienti.

«Portatemi via la mia gente e lasciatemi le aziende vuote
e presto l’erba crescerà sul pavimento dei reparti.
Portatemi via le aziende e lasciatemi le persone con cui lavoro
e presto avrò aziende migliori di prima».
(Andrew Carnegie)

In conclusione sviluppare un modello di training efficace e strutturato vuol dire risparmiare tempo, non dedicarsi solo alle emergenze e avere un team motivato e proattivo. Bisogna smettere di pensare che i propri dipendenti non abbiano altro interesse che timbrare il cartellino, o che sia uno spreco di energia o ancora che non ci sia il tempo. Sarebbe il primo ostacolo verso quel potenziale in attesa di essere scoperto.

«Un’organizzazione adulta è quella in cui le persone
hanno le conoscenze, le capacità, il desiderio e l’opportunità
di avere successo a livello personale
in un modo che porta al successo di tutta l’organizzazione».
(Stephen R. Covey)

Le persone si sentiranno più coinvolte e inizieranno entro breve tempo a dare il proprio contributo e a rispettare gli impegni. Avere la sensazione di sentirsi parte di qualcosa le stimolerà inoltre a dedicarsi con crescente passione al proprio lavoro.

 

DALLA SQUADRA AL SINGOLO: IL COACHING

Abbiamo visto uno strumento utile per i team, vediamone ora uno utile per il singolo individuo: il coaching.

«Le metodologie di coaching sono orientate al risultato,
piuttosto che centrate sul problema».
(Robert Dilts)

Il coaching parte dal presupposto che ogni persona ha in sé le risorse per poter raggiungere i propri obiettivi e sfruttare al meglio il proprio potenziale. Quello che fa il coach è dare un punto di vista esterno, utile in quei casi in cui la persona è “impantanata” in una situazione. Non vuol dire ovviamente spiegare al collaboratore cosa deve fare e come: sarebbe l’equivalente del training improvvisato, una modalità amatoriale e raffazzonata seppur mossa da buone intenzioni.

Vediamo invece in cosa consiste e quali sono le fasi di un coaching strutturato.

 

LE FASI DEL COACHING STRUTTURATO

Perché sia efficace, un processo di coaching deve passare da fasi ben strutturate – che devono essere rispettate – dal momento che si lavora sia sulla parte emotiva della persona sia sulla parte cognitiva. Ciò implica quindi il trasferimento di dati e informazioni concrete in momenti precisi.

Vediamo insieme le fasi:

1. Individuazione dei bisogni

Aiuti il collaboratore a rendersi conto delle proprie difficoltà, dei propri desideri o di cosa ha bisogno per raggiungere un determinato obiettivo. Per farlo hai a disposizione uno strumento utilissimo, le domande. Ti aiuteranno a non dover spiegare “il come fare” ma a far emergere le risposte.

Ci sono due tipi di domande, ossia quelle aperte del tipo: «Cosa vuoi migliorare…», «Cosa puoi fare per…», «Come puoi fare questa cosa…», «Come puoi organizzare…» che ti saranno utili per raccogliere informazioni o per aiutare una persona ad aprirsi a nuove possibilità.

Ci sono poi le domande chiuse, quelle a cui invece è possibile rispondere solo con un «Sì» o un «No». Sono particolarmente utili nella fase della verifica, ovvero quando bisogna ribadire un punto fermo o verificare se le cose sono state comprese correttamente.

2. Osservazione e raccolta dati

È evidente che le nostre emozioni non sono un termometro preciso della realtà. Il nostro stato emotivo e le nostre percezioni potrebbero portarci a fare generalizzazioni tipo: «Questa cosa succede sempre» o «Non succede mai» o ancora «Non ci riesce nessuno». Se invece, raccogliendo i dati, capiamo che accade il 20% delle volte, o che succede ai due terzi della squadra in determinate circostanze, possiamo impostare il nostro lavoro di coaching in maniera più logica e razionale.

3. Motivazione al cambiamento

«Chi ha un perché abbastanza forte,
può superare qualsiasi come».
(Friedrich Nietzsche)

Ciascuno di noi per modificare delle abitudini ha bisogno di una leva che lo spinga a farlo. Più l’abitudine è radicata più la leva dovrà essere forte. Spesso la leva del dolore è la più efficace (sono le cosiddette persone “lontano da”) ma esistono anche altre persone che sono più motivate ad andare “verso” un obiettivo da raggiungere. È la differenza tra la leva del piacere e quella del dolore.

La domanda da porre potrebbe essere del tipo: «Come ti sentirai se non riuscirai a far raggiungere alla tua squadra i risultati prefissati?». Calandosi mentalmente nell’ipotesi di non riuscire, la persona troverà in quel dolore la spinta necessaria per trovare il suo come. Vale lo stesso con una leva del piacere. La qualità di questa domanda è fondamentale perché con una forte leva si crea una forte spinta motivazionale.

4. Pianificazione degli obiettivi

Tendenzialmente ogni primo settembre e gennaio ci sentiamo i maestri indiscussi dell’arte della pianificazione. Siamo pieni di buoni propositi per la nuova stagione o il nuovo anno e fioccano iscrizioni in palestra e liste di cose da fare. Naturalmente dopo due settimane l’entusiasmo è già finito.

La differenza tra avere dei vaghi desideri e degli obiettivi è che questi devono contenere delle caratteristiche precise, ovvero devono essere S.M.A.R.T.:

• Specifici: definiti al dettaglio. Raggiungere “x” di fatturato, vendere tot pezzi, realizzare una campagna pubblicitaria online che abbia un ritorno “x”.

• Misurabili: i numeri saranno un prezioso alleato della tua mente per approcciare l’obiettivo (per esempio: obiettivo mensile di vendita di 15.000 euro).

• Ambiziosi: se non ti spaventano almeno un po’, non ne vale la pena.

• Realizzabili: sii consapevole della situazione, non fissare obiettivi troppo grandi in termini di quantità e qualità, rischia di diventare demotivante.

• Tempificati: come diceva Napoleon Hill, gli obiettivi sono dei sogni con una scadenza. Fissa una data entro cui l’obiettivo deve essere raggiunto.

Una corretta pianificazione richiede degli obiettivi intermedi, in modo che tu sia costantemente orientato al risultato senza sentirti scoraggiato dalla mole di lavoro che all’inizio, tutta insieme, può sembrare insormontabile. In più puoi verificare periodicamente il livello raggiunto.

In questa fase dobbiamo specificare:

  • le risorse necessarie: persone, tempo, denaro, competenze
  • quali di queste risorse abbiamo a disposizione e quali no
  • dove possiamo trovare le risorse mancanti
  • eventuali vincoli o ostacoli alla realizzazione degli step
  • eventuali elementi facilitatori
  • cosa ci permetterà di capire se abbiamo raggiunto l’obiettivo prefissato

Le persone sopravvalutano ciò che possono fare in pochi mesi e sottovalutano ciò che possono fare in qualche anno. L’utilizzo di obiettivi a medio termine è fondamentale perché la scorretta valutazione delle tempistiche è una delle cause più frequenti che porta al fallimento di un obiettivo.

5. Applicazione pratica

In questa fase il collaboratore, che mette in atto quanto definito durante il coaching, potrebbe evidenziare un blocco, giustificato da frasi come: «Non ho avuto tempo di mettere in pratica le cose», «L’ho fatto per i primi giorni ma poi ho lasciato andare», «È difficile!». Sono tutte indicazioni molto utili riguardo i suoi standard.

6. Osservazione e feedback

Questa è la fase di valutazione di quanto messo in atto in termini di quantità e qualità, in particolare:

  • valutazioni oggettive delle performance, quindi dati numerici
  • credenze sull’attività svolta e sulle situazioni che si sono venute a creare
  • rivisitazione delle chiavi di lettura di un singolo evento per generare un potenziamento delle risorse

Il momento del feedback è importantissimo perché la persona consapevolizza i propri punti di forza e le aree su cui deve ancora lavorare.

 

SUPPORTO PER SUPERARE I MOMENTI DI STOP

Può succedere che il collaboratore non abbia una crescita costante, ma attraversi dei momenti di stop.

Potrebbe essere perché non crede fino in fondo di potercela fare, o perché non ha ancora sviluppato le competenze necessarie o ancora perché ha standard troppo bassi.

È normale in un percorso del genere, ma per evitare che si trasformi in frustrazione il coach in questo caso può usare il cosiddetto metodo delle 7R per ripercorrere alcune fasi:

Revisione: esaminare i risultati raggiunti. Serve a ridare lucidità al collaboratore che in questo momento potrebbe non riuscire a valutare il percorso fatto fino a quel punto.

Riaffermazione: recuperare la fiducia in se stessi grazie alla revisione dei risultati.

Riassestamento: inquadrare diversamente il problema, vederlo sotto un altro punto di vista. È fondamentale per riattivare le risorse interiori.

Rivalutazione: rimotivarsi al cambiamento. Quando riusciamo a vedere le cose in modo più costruttivo recuperiamo energia disponibile all’azione.

Riallineamento: fissare nuove scadenze per raggiungere l’obiettivo originario. È fondamentale rimodulare il piano di azione alla luce delle riflessioni precedenti.

Risorse: rivedere le risorse alle quali appoggiarsi per riprendere il cammino.

Rilancio: dell’energia e della motivazione. È un fattore emozionale importantissimo.

 

 

CONCLUSIONE

Come diceva il leggendario allenatore di football americano Vince Lombardi: «Vincere non è un fatto occasionale».

Conta la preparazione e il talento dei membri del team, ma contano soprattutto le dinamiche con cui i membri del team entrano in relazione. E il leader può fare molto per condizionare queste dinamiche.

In questa guida abbiamo analizzato i fattori critici del successo di un team e abbiamo anche visto quali sono le competenze necessarie e gli strumenti utili per gestire al meglio questi fattori critici e trasformarli in fattori di successo.

Mi auguro che la lettura di questa guida sia stata per te l’occasione non solo di apprendere qualche cosa di nuovo, ma anche di riflettere sullo stato di salute del tuo team, sui suoi punti di forza e sulle aree di miglioramento per ottenere sempre nuovi risultati.

Con questa lettura avrai acquisito alcune informazioni fondamentali per essere un perfetto membro della squadra, così come quelle necessarie per essere un ottimo team leader.

Queste skill sono importanti sia per chi lavora all’interno di un’organizzazione e sia per chi è libero professionista: entrambe queste figure avranno più successo tanto più saranno capaci di fare squadra, e di trasformarsi nell’alleato ideale nella storia dell’impresa dei propri business partner o clienti.

Non solo: il medesimo know-how non ti sarà utile soltanto in ambito professionale, ma anche sportivo e personale!

Il vero vincitore non è mai solo. Perché la vita è uno sport di squadra.

All’interno delle varie tipologie di intelligenza, ce n’è una che è direttamente collegata alla nostra capacità di adattarci al mondo che cambia, di essere flessibili e di sapersi gestire all’interno delle difficoltà, ed è quella che viene definita intelligenza emotiva.

L’individuo del nuovo millennio, che tra le sue principali attività svolge quella di gestore delle emozioni proprie e altrui (se sei un genitore, un professionista, uno sportivo, se hai rapporti quotidiani con clienti, collaboratori, soci, non passi forse buona parte della tua giornata a rapportarti con l’emotività altrui, cosa che richiede in automatico di doversi confrontare costantemente con la propria?), deve necessariamente sviluppare il più possibile la sua intelligenza emotiva, se vuole influenzare più e meglio se stesso e l’ambiente in cui si muove.

In questa guida scoprirai cos’è l’intelligenza emotiva, perché è così collegata al tema della leadership e in quale modo potrai sviluppare l’intelligenza emotiva per diventare “emotivamente intelligente”.

Ecco l’indice delle guida:

COS’È L’INTELLIGENZA EMOTIVA?

La tecnologia ci rende più intelligenti
Responsabili del nostro stato emotivo
L’intelligenza più importante è quella emotiva
Intelligenza emotiva per essere leader di noi stessi

IL QUOZIENTE EMOTIVO

Analfabeti emozionali
Nove tipi di intelligenze
Emozioni, sentimenti e stati d’animo

LE 4 DIMENSIONI DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA

Consapevolezza di sé
Gestione di sé
Consapevolezza degli altri
Gestione delle relazioni interpersonali

 

COS’È L’INTELLIGENZA EMOTIVA

Oggi ci sono auto, case, smartphone, dispositivi di ogni genere detti “intelligenti” perché sono in grado di riprodurre alcuni processi del pensiero umano. Non solo, spesso questi dispositivi amplificano e rendono più efficienti i nostri processi di pensiero. Quante volte, per esempio, ci capita di usare il nostro smartphone per cercare l’indirizzo di un ristorante, una ricetta di cucina, il nome del protagonista di un film… Grazie a internet attualmente possiamo accedere a una quantità di informazioni che accelerano i nostri processi di pensiero, aumentando la capacità di formulare giudizi e risolvere problemi.

E se hai un problema, da quello più complesso che riguarda il lavoro o la sfera privata a quello più semplice di vita quotidiana, basta cercare su Google e trovi una serie di possibili risposte. Possiamo dunque dire che il progresso tecnologico ci ha reso “più intelligenti” o smart, se vogliamo usare un termine inglese, ormai di uso comune, che esprime anche il senso dell’accelerazione impressa ai nostri processi di pensiero dalle nuove tecnologie.

 

LA TECNOLOGIA CI RENDE PIÙ INTELLIGENTI

Ma se è vero che il progresso tecnologico ha aumentato il nostro livello d’intelligenza, è altrettanto vero che non ha contribuito a migliorare il nostro stato di benessere. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’anno 2020 la depressione è stata la seconda causa di malattia, dopo le patologie cardiovascolari, in tutto il mondo, Italia compresa.

Solo nel nostro Paese almeno 1,5 milioni di persone soffrono di disagio emotivo di vario genere.
Il che dimostra che al progresso tecnologico non è corrisposto un adeguato progresso di tipo emotivo. Per quanto sia tecnologicamente evoluta e informata, la maggior parte degli esseri umani è ancora un “analfabeta emozionale”. Se, infatti, è cresciuta la capacità di trovare, incamerare ed elaborare informazioni dal mondo esterno, non è cresciuta parallelamente la capacità di capire e gestire ciò che accade nel mondo emotivo.

 

RESPONSABILI DEL NOSTRO STATO EMOTIVO

Per la maggior parte delle persone le emozioni restano ancora un mistero, qualcosa di assolutamente fuori dal controllo. Probabilmente ti sarà capitato di sentire o di pronunciare frasi di questo tipo:

– «Non so cosa mi è successo, ero fuori di me quando ho agito in quel modo».
– «Cosa ci posso fare? Sono un tipo emotivo».
– «Ogni volta che devo incontrare quella persona o devo fare quella cosa mi assale lo sconforto».
– «L’ansia mi assale».
– «Sono sotto stress».
– «Mi è venuta la depressione».

Come se le emozioni fossero forze oscure che hanno il potere di impossessarsi di noi e guidare il nostro comportamento indipendentemente dal nostro volere. In realtà non è così. Grazie ad alcuni studiosi, primo tra tutti Daniel Goleman, oggi conosciamo i meccanismi che regolano le nostre emozioni e proprio per questo siamo potenzialmente in grado di governarli. Dico potenzialmente perché tra il sapere e il fare, come vedremo, c’è una bella differenza.

 

L’INTELLIGENZA PIÙ IMPORTANTE È QUELLA EMOTIVA

Quel che è certo, però, è che noi siamo responsabili del nostro stato emotivo. Abbiamo il potere di gestire le nostre emozioni. Possiamo uscire da stati “emozionali negativi” nel momento in cui diventano un ostacolo. Sapere come funzionano le nostre emozioni, riconoscerle e gestirle per evitare che prendano il sopravvento, inducendoci magari a compiere azioni di cui possiamo pentirci, può essere considerata un’altra forma di intelligenza che viene appunto definita emotiva.

Certo, l’accostamento di parole come intelligenza ed emotività suona un po’ strano. Nella letteratura italiana l’accostamento di due parole di senso contrario o in forte antitesi viene detta ossimoro. E, a pensarci bene, la formula intelligenza emotiva sembra proprio un ossimoro perché accosta due parole che fanno riferimento a sfere che siamo soliti considerare un po’ come il giorno e la notte: la sfera della razionalità e del pensiero e la sfera delle emozioni.

Ciò dipende dal fatto che siamo abituati a considerare l’intelligenza in modo univoco come quella “facoltà, propria della mente umana, di intendere, pensare, elaborare giudizi e soluzioni in base ai dati dell’esperienza anche solo intellettuale”. In realtà, esistono diversi tipi di intelligenza tra i quali la più importante è quella emotiva. A essere precisi l’intelligenza emotiva non consiste solo nella capacità di conoscere e gestire le proprie emozioni ma anche nella capacità di riconoscere le emozioni altrui e di creare con loro relazioni positive. E nelle relazioni c’è sempre uno scambio di emozioni, anzi, c’è soprattutto quello. Se ci pensi bene, la comunicazione tra due o più individui è più uno scambio di emozioni che di informazioni.

Del resto, come diceva Aristotele, siamo animali sociali.

 

INTELLIGENZA EMOTIVA PER ESSERE LEADER DI NOI STESSI

La qualità della nostra vita dipende in buona misura dalla qualità delle relazioni che abbiamo con gli altri membri del sistema a cui apparteniamo. Paradossalmente, proprio nell’era della comunicazione, nell’era in cui disponiamo di strumenti che facilitano e accelerano scambi di informazioni, ci sono sempre più persone che hanno problemi relazionali.

L’abitudine a comunicare per mezzo di dispositivi e macchine ci sta facendo perdere la percezione dell’altro, ci sta facendo perdere la capacità di percepire le sue emozioni e anche di influenzarle in modo positivo. Anche questo è un sintomo dell’analfabetismo emotivo dilagante, che sta alla base del malessere della nostra epoca. Se vogliamo migliorare veramente la qualità della nostra vita non basta dunque essere più informati o tecnologicamente evoluti, dobbiamo essere emotivamente intelligenti.

L’intelligenza razionale ci ha permesso di essere padroni dell’universo, ma solo l’intelligenza emotiva ci permette di essere Leader di noi stessi. In questa guida parleremo degli studi di Daniel Goleman che, sebbene non sia il padre dell’intelligenza emotiva, ne è il suo massimo divulgatore ed è, soprattutto, colui che l’ha applicata anche al contesto organizzativo e alla leadership.

Perché non è mai troppo tardi per diventare “emotivamente intelligenti”!

 

IL QUOZIENTE EMOTIVO

Il più grande divulgatore del concetto di intelligenza emotiva è lo psicologo Daniel Goleman, che, dal 1995, tramite i suoi libri e i suoi studi, ha costretto a riconsiderare la tradizionale concezione che dava valore quasi esclusivamente alle sole capacità umane legate al Quoziente Intellettivo (QI), affermando che spesso il successo nella vita è legato molto più ad altre variabili, soprattutto quelle emotive.

In particolare, si ritiene oggi il quoziente d’intelligenza emotiva (QE) molto più importante del QI, soprattutto per chi riveste ruoli di leadership, tanto da considerarla in assoluto una delle principali caratteristiche del leader moderno. Guidare gli altri, oggi, non richiede infatti enormi dosi di flessibilità, empatia, capacità di gestire lo stress e, più in generale, l’emotività propria e altrui? E se l’obiettivo è diventare sempre più leader di se stessi, non dobbiamo forse mettere in gioco le stesse capacità? Per fare ciò, però, ci vuole coraggio, consapevolezza di sé e il desiderio di lavorare su se stessi per diventare un leader.

Chi non fa questo, non solo non sviluppa la propria intelligenza emotiva, ma si ritrova inevitabilmente nella condizione opposta. A essere quello che può di diritto essere definito un “analfabeta emozionale”, categoria purtroppo di cui siamo circondati! Persone del tutto inconsapevoli di come le proprie e le altrui emozioni influenzino se stessi e il mondo che li circonda e, ancor di più, completamente all’oscuro di come possano a loro volta essere indirizzate e gestite.

Insomma, le persone dotate di un elevato QE hanno, in questo nuovo mondo, un vantaggio competitivo enorme, oltre a una facilità di vivere la vita e adattarsi ai cambiamenti, trasformandoli in opportunità, estremamente superiore alla media. Per questo, vale davvero la pena di lavorarci sopra, anche perché l’intelligenza emotiva comprende competenze che non sono innate, ma che possono essere acquisite e migliorate giorno dopo giorno.

 

ANALFABETI EMOZIONALI

Nel 1995 Goleman ha pubblicato un best seller psicologico dal titolo “Emotional Intelligence”, tradotto in italiano nel 1997 con il titolo “Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici”. Nella prefazione italiana si legge: «Ho scritto Emotional Intelligence in un momento in cui la società civile americana si dibatteva in una crisi profonda, caratterizzata da un netto aumento del fenomeno dei crimini violenti, dei suicidi e dell’abuso di droghe, come pure altri indicatori di malessere emozionale, soprattutto tra i giovani».

Basta anche solo guardarsi intorno o fare un salto sui social network per rendersi conto di quanto il malessere sia diffuso. Su Facebook, in particolare, si trovano costantemente persone che si esprimono con una violenza verbale pazzesca: gente che augura a personaggi famosi (e non) di morire o che arriva addirittura a minacciare fisicamente chi semplicemente esprime un’opinione diversa dalla propria. La cosa strana è che non si tratta di individui che vivono ai margini della società. C’è lo studente universitario, l’agente di commercio, il musicista… Persone “normali” che – tra una foto di famiglia, un aforisma e un video divertente – si lasciano andare a manifestazioni di rabbia inaudite. Persone con un’intelligenza nella norma ma… emotivamente ottuse.

Il consiglio di Goleman per guarire da questi mali sociali è quello di «prestare una maggiore attenzione alla competenza sociale ed emozionale dei nostri figli e di coltivare con grande impegno queste abilità del cuore». Con il termine abilità del cuore si riferisce proprio all’intelligenza emotiva che definisce come «la capacità di riconoscere i propri sentimenti e quelli altrui, di motivare se stessi e di gestire le emozioni internamente e con le persone con cui ci relazioniamo».

Queste sono le abilità da coltivare e sviluppare maggiormente non solo nelle nuove generazioni.
Tutti noi dovremmo diventare emotivamente più intelligenti perché alla fine il vero successo dipende soprattutto da questa dimensione dell’intelligenza.

 

NOVE TIPI DI INTELLIGENZE

In principio era il QI (Quoziente Intellettivo), termine coniato nel 1912 dallo psicologo tedesco William Stern, che lo definì come il risultato della formula:

età mentale / età biologica X 100 mentale

Per molti anni a partire dalla Prima guerra mondiale, quando due milioni di americani vennero classificati usando la prima versione del test, il calcolo del QI ha rappresentato la formula capace di prevedere il successo di una persona. Ma negli anni questo potere quasi magico è stato più volte messo in dubbio dal fatto che ci sono state più eccezioni che casi a conferma della regola.

Possedere un alto quoziente intellettivo è uno dei fattori che contribuiscono al successo di una persona, ma non è quello principale (secondo Goleman infatti conta solo per il 20%). E ciò soprattutto perché il vecchio concetto di intelligenza, su cui si basano i test per misurare il QI, non è in grado di esprimere la ricchezza dell’essere umano.

Lo diceva già nel 1990 Edward Gardner, il teorico delle intelligenze multiple. Secondo Gardner non esiste una facoltà comune di intelligenza che possa essere misurata con un numero come fa il QI. Non esiste una sola forma di intelligenza, ma tante forme e precisamente:

1. intelligenza logico-matematica
2. intelligenza verbale-linguistica
3. intelligenza spaziale
4. intelligenza musicale
5. intelligenza cinestetica o corporea
6. intelligenza naturalistica
7. intelligenza filosofico-esistenziale
8. intelligenza intrapersonale
9. intelligenza interpersonale

Ogni persona ha quindi almeno nove tipi di intelligenze, che utilizza in momenti diversi. Così come ci sono persone che hanno sviluppato tutti i diversi tipi di intelligenza, ce ne sono altre, invece, che sviluppano maggiormente e in maniera specifica un particolare tipo di intelligenza.

Purtroppo i programmi scolastici si focalizzano solo sui primi due, al massimo tre, tipi di intelligenza, mentre si dà poco spazio nella scuola per lo sviluppo delle intelligenze di tipo intra-personale e interpersonale, ossia l’abilità di capire se stessi, quello che si sente e ciò che si vuole e la capacità di percepire i sentimenti e le motivazioni delle altre persone. Queste due sono in particolare le tipologie di intelligenza che rientrano nel modello elaborato da Goleman e dagli studiosi che l’hanno preceduto.

Il motivo per cui, nonostante il livello di scolarizzazione, le persone continuino a cadere in balia delle emozioni sta nel fatto che purtroppo a scuola ci insegnano a leggere, studiare (che spesso equivale a nient’altro che immagazzinare dati e informazioni) e far di conto, ma non ci insegnano l’alfabeto delle emozioni.

Non ci insegnano a riconoscere le nostre emozioni e a sfruttare a nostro vantaggio il loro potere anziché farci sopraffare da esse. La capacità di gestire le emozioni viene così lasciata sviluppare, quando va bene, dall’esperienza di vita. È infatti abbastanza diffusa la credenza che con il passare degli anni le persone diventino più sagge e quindi capaci di tenere a bada i propri impulsi. Niente di più falso.

Nella mia esperienza di formatore e coach mi capita di incontrare spesso persone giovani dotate già di un buon livello di intelligenza emotiva e persone di una certa età che sono emozionalmente ottuse. Professionisti che dopo anni di lavoro vanno ancora nel pallone se devono parlare in pubblico, uomini e donne di ogni età che sfogano la propria frustrazione nel cibo o con dipendenze di ogni tipo. Da oltre vent’anni tengo corsi di “Emotional Fitness” e posso garantire che non c’è niente di più diffuso nella nostra società dell’analfabetismo emozionale.

 

EMOZIONI, SENTIMENTI E STATI D’ANIMO

Le emozioni non sono tutte uguali, generalmente si distinguono fra quelle primarie di base – come paura, rabbia, disgusto, gioia e tristezza – e alcune emozioni secondarie. Le emozioni primarie rappresentano reazioni innate con le quali reagiamo agli stimoli e sono presenti fin dalla nascita.

Le emozioni secondarie sono invece reazioni più complesse che compaiono in momenti successivi dello sviluppo, quando siamo psicologicamente più consapevoli. Ogni volta che proviamo un’emozione la nostra energia cambia. In altre parole, l’emozione rappresenta l’energia che necessita di direzione, di movimento, di azione, indipendentemente dalla causa. La causa o lo stimolo non sono assolutamente importanti. Si può trattare di un motivo importante o irrilevante, ma è ciò che facciamo con questa energia che fa la differenza.

E i sentimenti? Non sono forse emozioni anche loro? O sarebbe meglio considerarli simili agli stati d’animo? Un’emozione è una reazione immediata e indipendente dal pensiero. È istintiva.
Provare un sentimento significa invece avere consapevolezza di un determinato stato affettivo.

E gli stati d’animo? Gli stati d’animo non sono delle reazioni immediate a degli stimoli definiti, come le emozioni, ma un umore di fondo con cui ci approcciamo al mondo. In altre parole, sono emozioni che si mantengono nel tempo. Le persone esprimono il proprio stato d’animo con espressioni del tipo: «Oggi sono di buon umore», «Sono stressato», «Sono depresso».

Quando il nostro stato emotivo è positivo ci sentiamo carichi di energia, siamo aperti al mondo e agli altri, compiamo scelte positive, abbiamo anche la forza di affrontare gli imprevisti e di risolvere eventuali problemi. Questo atteggiamento ci porta poi ad attrarre persone ed eventi tendenzialmente altrettanto positivi, innescando quindi un circolo virtuoso.

Quando invece il nostro stato emotivo è negativo la vita si fa davvero dura. Sia chiaro, emozioni quali rabbia, paura, frustrazione e altre emozioni considerate come negative non lo sono in senso assoluto poiché anch’esse assolvono a una funzione positiva. La paura ci preserva dall’esporci al pericolo, la rabbia può darci la spinta per reagire in una situazione difficile…

Il peggio accade quando le emozioni negative prendono il sopravvento e si stabilizzano in stato d’animo, orientando di conseguenza il nostro comportamento spesso anche contro la nostra ragione. Quante volte, in balia della rabbia o della paura, ci capita di dire o fare cose che non avremmo mai detto o fatto se fossimo stati lucidi?

Insomma lo stato d’animo con cui affrontiamo la vita determina, in buona misura, il nostro comportamento e, di conseguenza, i nostri risultati. Pensa, per esempio, a come si comporta una persona che affronta un esame scolastico, un colloquio di lavoro o una riunione con uno stato d’animo di buon umore.

E una di persona di cattivo umore? Le loro parole, il loro tono e linguaggio del corpo sono certamente diversi e, di conseguenza, sarà diversa la percezione che avranno i loro interlocutori. Quindi anche l’esito finale potrà essere molto differente.

La buona notizia è che noi possiamo essere padroni dei nostri stati d’animo.

Possiamo accedere a uno stato d’animo positivo e uscire da uno stato d’animo negativo. Non dobbiamo aspettare di ricevere una buona notizia o di vincere alla lotteria per essere di buon umore. Al tempo stesso, una brutta notizia può suscitare in noi un’emozione negativa ma non dobbiamo necessariamente portarcela dietro per tutta la giornata, correndo il rischio di trasformarla in stato emotivo. In qualsiasi momento possiamo passare costantemente da stati d’animo indesiderati a stati d’animo desiderati in un istante.
Ciò è possibile a patto di essere in grado di governare gli elementi che compongono uno stato d’animo e che sono essenzialmente tre: il nostro corpo, il focus mentale e il linguaggio. Tema centrale del nostro seminario Emotional Fitness.

 

LE 4 DIMENSIONI DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA

Negli anni Goleman ha sviluppato le proprie teorie relative all’intelligenza emotiva, riducendo e semplificando le dimensioni a queste 4.

Consapevolezza di sé
Gestione di sé
Consapevolezza degli altri o sociale
Gestione delle relazioni interpersonali

Le prime due sono competenze personali che riguardano la nostra capacità di riconoscere e gestire le nostre emozioni, le altre sono competenze sociali che consistono nella capacità di gestire le relazioni interpersonali.

 

CONSAPEVOLEZZA DI SÉ

Le domande che ci poniamo sono fondamentali, perché orientano il nostro focus e quindi, di riflesso, i nostri risultati. C’è una domanda, tuttavia, che pur essendo importantissima, talvolta trascuriamo di farci. Capita, invece, che a farcela siano più spesso gli altri e che, nonostante ce la sentiamo rivolgere tutti i giorni, non la prendiamo poi così seriamente. Anzi, la sottovalutiamo al punto da rispondere distrattamente, come se non avesse alcuna importanza. La domanda è: “Come stai?”.

La risposta che, quasi come un riflesso condizionato, di solito diamo è: “Bene”, con al massimo qualche piccola variante. Su questa convenzione del linguaggio ci sarebbe molto da dire, ma l’aspetto che m’interessa mettere in luce è che spesso non siamo in grado di dire molto di più di “bene” o “male”, perfino quando la domanda è posta seriamente, cioè nel caso in cui l’ascoltatore sia interessato a conoscere i nostri stati d’animo, non il modo in cui li banalizziamo!

Se questo accade è perché, nella maggior parte dei casi, non conosciamo abbastanza le nostre emozioni da articolare una risposta che ne rifletta le infinite tonalità. Che ne è di tutte le sfumature emozionali con cui viviamo i chiaroscuri dell’esistenza? Di fronte a un uso tanto rudimentale del linguaggio si potrebbe arrivare a pensare che abbiamo perso la capacità di ascoltarci, di fermarci e analizzare i nostri stati interiori, sentire di cosa abbiamo bisogno, che cosa preferiamo. È proprio così? Oppure, più probabilmente, tanti di noi questa capacità non l’hanno mai sviluppata a sufficienza, indotti come sono stati a credere che le emozioni siano un mistero insondabile, qualcosa su cui è inutile interrogarsi tanto?

Le emozioni non sono dentro di noi per sconvolgerci la vita, ma per aiutarci a viverla. Conoscerle meglio, conduce automaticamente a un superiore livello di consapevolezza e permette di “far lavorare in team” la mente e il cuore, eliminando, o quantomeno riducendo, i conflitti interiori, una delle principali cause di riluttanza al cambiamento.

Ricorda, le emozioni non sono ostacoli, ma informazioni. E sono al tuo servizio, non contro di te! Emozioni e razionalità non sono affatto entità in contrapposizione, se impariamo a rispettare le loro aree di intervento, le loro “giurisdizioni”. Al contrario, se accetterai che entrambe abbiano ragioni da esporti e che è opportuno ascoltarle, possono rappresentare alleate che condividono una causa comune: la tua felicità.

Fingere che le emozioni non esistano, o cercare di metterle a tacere, è un comportamento paragonabile a quello dei bambini che si tappano le orecchie per non sentire ciò che non gli piace. Fino a non molti anni fa, le emozioni erano considerate poco più che intralci a un corretto modo di vivere. Era il mondo dei genitori autoritari e delle regole da rispettare in quanto tali, senza cedimenti, tanto in famiglia come sul lavoro.

È quindi possibile che tracce di questo atteggiamento verso le emozioni fossero presenti nel modello educativo che ha contribuito a formarti. Oggi, tuttavia, sei libero di andare oltre. Avere coscienza dei tuoi stati d’animo è importante perché:

Ti consente di comunicarli apertamente ed esprimere la visione ideale che ispira la tua vita.
Ti permette di prenderne le distanze in modo consapevole quando la tua risposta emotiva non è adatta al contesto.
Ti aiuta soprattutto quando provi sensazioni spiacevoli. Anche queste ultime, infatti, sono importanti e non vanno soffocate, ma comprese, perché ci inviano messaggi che meritano di essere interpretati correttamente.

La cosa davvero importante è che instaurare un rapporto sempre migliore con le tue emozioni, osservarle e imparare a riconoscerle ti renderà più sicuro, ti darà più fiducia in te stesso, ti aiuterà a mettere a fuoco il tuo valore e le tue capacità.

 

GESTIONE DI SÉ

Ipotizziamo che tu sia una persona che si arrabbia spesso e “volentieri”, in particolare nel contesto lavorativo. Immaginiamo, per esempio, che tu sia uno di quegli individui che vogliono sentire di avere tutto sotto controllo quando parli con un cliente e gli presenti i tuoi progetti. Sei assolutamente convinto che, in questi casi, gli imprevisti siano nient’altro che il sintomo di una preparazione raffazzonata. Se si verificano è perché qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro, in spregio alle tue raccomandazioni, ma soprattutto a te. È per questo che proprio non ti vanno giù.

Infatti, quando tutto sembra andare alla perfezione e, proprio sul più bello, si verifica un inconveniente, la tua reazione automatica è pensare che i tuoi collaboratori se ne freghino di te e della tua professionalità! Allora, ecco che senti montare una collera irrefrenabile, alla quale dai la stura di solito alzando la voce e gesticolando animatamente. In casi estremi dai letteralmente in escandescenze, ovviamente quando il cliente non è presente.

E poi ci sono le altre situazioni, in cui il cliente è lì davanti a te e tu, nonostante tutto, gestisci la situazione con calma. Tiri un bel respiro, ti focalizzi sull’obiettivo e conduci comunque in porto la trattativa. Alla fine, quando esci dagli uffici del cliente, ti rendi conto che tutta la tua rabbia, che per un attimo hai sentito dentro quando ti sei accorto dell’inconveniente, si è dileguata come nebbia allo spuntare del Sole.

Un esempio come questo si può traslare, senza difficoltà, nella vita familiare. Se hai figli, sai perfettamente di cosa parlo, ma ne sei cosciente anche se hai dei genitori o un compagno. Idem con gli amici: quando gestiamo le nostre emozioni, chi abbiamo di fronte non fa alcuna differenza.

Tutte le volte che sei riuscito a deviare il flusso delle emozioni, per impedire che prendessero il sopravvento, hai dimostrato a te stesso di saperne controllare il corso. La gestione delle tue emozioni è una capacità che possiedi naturalmente e che utilizzi per lo più inconsciamente. Il mio obiettivo è indurti a prendere coscienza che puoi farlo in maniera consapevole ogni volta che ne hai bisogno per gestire le tue emozioni depotenzianti.

Per esprimere il fatto che abbiamo vissuto un’emozione forte e improvvisa, nel linguaggio corrente diciamo che essa “ci ha assalito” o “sopraffatto”, termini non casuali che descrivono bene cosa ci succede ed esprimono con chiarezza la nostra debolezza in quel momento. Spesso viviamo le emozioni come qualcosa più forte di noi, lasciamo che ci attacchino facendoci perdere il contatto con la realtà, minando la nostra lucidità.

Gestirle, al contrario, significa assumerci con coscienza la responsabilità di ciò che proviamo, comprendendo che le emozioni, sotto diversi punti di vista, non sono qualcosa che ci succede, ma qualcosa che noi creiamo dentro di noi, focalizzandoci su alcuni aspetti, muovendoci e comunicando come decidiamo di fare e interpretando correttamente la realtà. In questo modo generiamo, incanaliamo e traduciamo in azione le nostre emozioni.

Saper guidare noi stessi e spronarci al raggiungimento dei nostri obiettivi, prendere l’iniziativa e imparare a perseverare nonostante gli ostacoli e le frustrazioni, saper conservare un atteggiamento aperto di fronte a idee e approcci nuovi, tutto questo ha a che fare con il modo in cui ci rapportiamo alle nostre emozioni. Passivi o protagonisti? Vittime o artefici?

Il primo passo è imparare a riconoscere le emozioni e a dare loro un nome. Il secondo passo è prendere atto che possiamo allenarci a gestirle meglio. Ogni cambiamento ci sottopone a stress, ma nel contempo è nostro alleato, perché trasmette al nostro cervello i segnali che gli occorrono per imparare a convivere meglio con l’incertezza.

Gestire le emozioni, anziché esserne gestiti, è la chiave per gettare sulla tua realtà uno sguardo più imparziale, con il quale potrai valutare più serenamente il lato positivo degli eventi, i motivi delle sconfitte e gli insegnamenti che devi trarne, creando così opportunità per il futuro e guardando alle cose con maggiore equilibrio e ottimismo.

Vivere meglio il cambiamento significa in particolare imparare a:

Valutare costi e benefici
Ogni decisione ha conseguenze emotive su noi stessi e sugli altri. Non è solo cosa accadrà, ma come ci farà sentire e come farà sentire le persone intorno a noi. Vivere il cambiamento in modo costruttivo significa impegnarsi ad anticipare costi e benefici emotivi delle nostre decisioni prima che il contraccolpo si manifesti. Allenati a prevedere le conseguenze emotive delle tue scelte, sia positive sia negative, in relazione ai tuoi obiettivi, e il cambiamento diverrà inevitabilmente più facile.

Seguire la propria motivazione
Come abbiamo visto, ognuno di noi ha credenze, fattori motivazionali e valori che costituiscono una spinta o un freno al cambiamento. Conoscerle e imparare ad assecondarle con una buona visione a medio e lungo termine delle loro conseguenze (vedi punto precedente) ti aiuterà ad andare nella direzione dei tuoi risultati più facilmente.

Cercare alternative
Il cambiamento diventa stressante quando non riusciamo a vedere alternative. Ma imparare a vederle è un’abilità che si può sviluppare, esattamente come tutte le altre, quando si assume il corretto atteggiamento mentale. Non ottimismo superficiale, ma la capacità di riconoscere che siamo noi a determinare la nostra vita e che i dilemmi del genere “O così o cosà” sono il frutto di una visione limitata delle cose. Accedendo a un nuovo livello di pensiero, vedremo inevitabilmente nuove, inattese soluzioni.

 

CONSAPEVOLEZZA DEGLI ALTRI

Esaminiamo adesso la dimensione dell’intelligenza emotiva legata al rapporto con le altre persone.

Consapevolezza degli altri significa comprensione del fatto che anche chi sta attorno a noi prova emozioni e sentimenti che ne influenzano la condotta. Possiamo talvolta essere tentati di pensare che le azioni degli altri non abbiano una ragione comprensibile o che siano sbagliate. Ci sono gesti, azioni, eventi che sfidano la nostra disponibilità ad accettare che abbiano un senso, ma la verità è che dietro ogni comportamento c’è una spiegazione e in ogni spiegazione, se fondata, l’aspetto emozionale gioca un ruolo di primo piano.

Gli esseri umani possono raccontare a se stessi di agire esclusivamente in base a valutazioni razionali, e perfino arrivare a crederci, ma le cose stanno in tutt’altro modo. Perché facciamo quello che facciamo? Le emozioni ce lo spiegano molto bene. Se comprendere le nostre è la condizione necessaria per conoscere il nostro mondo interiore, entrare in empatia con gli altri equivale a costruire il ponte che ci porterà nei mondi delle altre persone.

La capacità di mettersi nei panni dell’altro, di percepirne le emozioni e di comprenderne il punto di vista è un’abilità che abbiamo sviluppato nel corso dell’evoluzione. La sua utilità è innegabile. Ci consente di instaurare rapporti costruttivi, coltivare fiducia e sintonia emotiva con persone anche molto diverse da noi, di entrare in contatto con culture differenti, di comunicare con efficacia.

Sarà probabilmente capitato anche a te di aver bisogno di condividere i tuoi stati d’animo con un amico, non necessariamente per ricevere consigli, ma solo perché sentivi la necessità di essere ascoltato e compreso. Eri in cerca, letteralmente, di compassione. Il termine “compassione”, che oggi viene spesso interpretato in un’accezione negativa, vuol dire semplicemente riuscire a provare la sofferenza degli altri, saper sentire le medesime sensazioni di un’altra persona. La compassione è uno degli elementi fondamentali di un’altra risorsa chiave nelle relazioni con il prossimo, l’empatia. Più precisamente è la sua premessa, perché ci motiva ad avvicinarci agli altri per comprenderli e solidarizzare. L’empatia, in ogni caso, non si esaurisce nel provare ciò che provano gli altri, è invece un set di abilità, un insieme di competenze specifiche, che possono essere affinate con la pratica e l’esperienza.

In particolare queste sono:

Entrare nel punto di vista degli altri
Come vede il mondo il nostro interlocutore? Le sue esperienze di vita, il suo retroterra culturale, le sue credenze, i suoi valori, le sue regole personali sono le lenti attraverso le quali decifra la realtà. Ognuno di noi ha una sua visione di ciò che è giusto o sbagliato, piacevole o spiacevole. Occorre riconoscerlo.

Sospendere il giudizio
In secondo luogo, quando abbiamo capito che ognuno ha la sua “mappa del mondo”, ossia la sua visione della realtà, siamo chiamati a non giudicarla. È la sua, va bene così, non siamo qui per cambiarla, ma per capirla.

Comprendere le emozioni degli altri
Che cosa provano gli altri, che emozioni stanno sperimentando? Non è indispensabile che le sentiamo a nostra volta, per quanto questo aiuti senza dubbio a stabilire una connessione più immediata e profonda, ma dobbiamo arrivare a capire quali emozioni siano in gioco, se vogliamo relazionarci meglio con chi è intorno a noi.

Comunicare
L’ultimo passo è manifestare agli altri che riconosciamo la loro condizione e siamo lì per loro. La comunicazione è lo strumento più potente a nostra disposizione per unirci agli altri e creare una connessione potenziante. L’empatia è dunque una qualità straordinariamente importante da migliorare per comprendere a fondo la dinamica di una situazione e vivere una vita più ricca di affetti. Lo è, inoltre, per sviluppare tutte quelle prerogative che, nelle fasi di cambiamento, rappresentano un punto di forza inestimabile: le capacità sociali.

 

GESTIONE DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI

Le nostre abilità sociali non sono altro che la capacità di relazionarsi con gli altri in maniera positiva, piacevole, collaborativa e produttiva, e rappresentano indubbiamente una vera e propria “cartina di tornasole” per capire se un individuo ha un QE sufficientemente elevato oppure no.

Tutti quanti conosciamo persone con le quali “si sta bene” o “si lavora bene”, individui con i quali, in genere, gli altri si rapportano e si relazionano con piacere e riescono a collaborare con facilità. Allo stesso modo, tutti noi conosciamo anche persone con le quali, invece, non si lavora bene e che vengono tendenzialmente evitate perché interagire con loro è difficile, faticoso e tutt’altro che gradevole.

Che caratteristiche hanno i primi e quali invece i secondi? È evidente che una persona in grado di interagire positivamente con gli altri deve avere la capacità di adattarsi a persone diverse, il che implica comprenderle e trovare i giusti modi per relazionarsi con loro, ma anche essere flessibile e gestire se stesso in più modalità, visto che le persone possono essere estremamente differenti tra loro.

Al contrario, la persona con cui la gente lavora male e che tende il più possibile a evitare è in genere estremamente centrata su di sé, poco flessibile e molto poco consapevole dei suoi modi sgradevoli e dell’effetto che generano sugli altri. Insomma, il tipico analfabeta emozionale!

Quindi, per sapersi relazionare ottimamente con gli altri, bisogna possedere le caratteristiche relative alle tre aree precedenti: possiamo infatti gestire rapporti se non siamo sufficientemente consapevoli di noi e degli altri e se non sappiamo gestire noi stessi?

D’altra parte, il cambiamento ci mette alla prova e le prove si superano meglio se possiamo contare su una rete di rapporti di qualità: amici, alleati, partner, compagni di viaggio. Quando l’empatia passa all’azione diventa una forza irresistibile di successo che si manifesta in capacità sociali vincenti.

Quali le abilità da sviluppare relative alla dimensione dell’abilità di rapportarsi con gli altri?

Comunicazione efficace
Capire gli altri, le loro emozioni e motivazioni, ti consente di comunicare efficacemente e stabilire il tipo di connessioni con gli altri che innalza la qualità della vita, anche e soprattutto quando questa sta cambiando.

Gestione dei conflitti
Comprendere gli stati d’animo altrui è l’elemento principale da cui partire per gestire con successo i conflitti, capire le differenze e trovare i punti di contatto per risolvere le divergenze.

Collaborazione
Attraverso un buon livello di competenza nelle capacità sociali potrai creare occasioni di vera collaborazione e cooperazione, costruire e alimentare legami per orientare gli altri verso il raggiungimento di obiettivi comuni.

Valorizzare le differenze
Quando il cambiamento procede per il meglio è perché stiamo valorizzando ciò che di buono c’è nella differenza fra un prima e un dopo. D’altronde, non ti serve a niente circondarti di persone uguali a te in tutto e per tutto, né fare sempre le stesse cose. Varietà è sinonimo di opportunità. Nelle differenze c’è una possibilità di arricchimento “senza uguali”. Le capacità sociali comprendono il saper valorizzare le diversità, cogliendo le opportunità offerte dalle altre persone, riconoscendo e indirizzando un processo di cambiamento e di sviluppo delle potenzialità altrui.

 

CONCLUSIONE

Con questa guida hai raccolto una serie di informazioni chiare su cosa vuol dire “Intelligenza Emotiva” e su come sia fondamentale saperla gestire all’interno delle relazioni.

Ora conosci quali sono le 4 dimensioni dell’intelligenza emotiva, che cos’è il quoziente emotivo (QE) e come si distingue dal quoziente intellettivo (QI). Hai inoltre scoperto chi sono gli analfabeti emozionali e perché è molto importante conoscere la differenza tra emozioni, sentimenti e stati d’animo.

È semplice, basta ora fare i passi giusti per diventare finalmente responsabile del tuo stato emozionale e applicare in maniera efficace l’intelligenza emotiva per diventare Leader di Te stesso.

La qualità della nostra vita dipende, in buona misura, dalla qualità delle emozioni che proviamo.

Stati d’animo positivi ci consentono di esprimere al meglio le nostre potenzialità e di costruire delle relazioni positive con gli altri. Di contro stati d’animo negativi ci succhiano le energie e sequestrano la nostra attenzione riducendo anche le nostre capacità di pensare, di risolvere problemi e affrontare le sfide della vita.

Quando sei pronto, quando senti il desiderio di raggiungere una piena padronanza delle tue emozioni, affrontare le sfide con sicurezza ed esprimere il tuo potenziale al meglio, ti aspetto all’EMOTIONAL FITNESS, un weekend intensivo per imparare a gestire al meglio le proprie emozioni e sviluppare un mindset vincente!

Perché mentre là fuori tutto sembra andare a rotoli…
… tu cosa hai intenzione di fare per riprendere il controllo?

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