LA COMUNICAZIONE EFFICACE: IL MESSAGGIO GIUSTO NEL MODO GIUSTO

Quando si parla di comunicazione efficace, dobbiamo essere consapevoli che il nostro comportamento comunica sempre qualcosa. Per questo è importante sentirsi “responsabili” della propria comunicazione e sviluppare l’intelligenza percettiva (visiva, auditiva e cinestesica) per entrare in rapporto con i nostri interlocutori.

In questa guida ti fornirò una serie di suggerimenti e strumenti per creare rapport con qualsiasi potenziale interlocutore. Si parte dall’ascolto attivo per arrivare a spiegare cosa significhino termini come “ricalco” e “guida”. Ti parlerò anche di sistemi rappresentazionali, di domande aperte e chiuse, di parole chiave e di molto altro.

Potrai certamente usare tutto questo per entrare più facilmente in sintonia con qualsiasi tipo di interlocutore, ma, come sempre, ciò che farà la differenza sarà l’atteggiamento mentale con cui applicherai quanto hai appreso.

Se il tuo unico obiettivo sarà di manipolare in senso negativo l’altra persona, per condurla a prendere delle decisioni non buone per lei ma solo per te, allora potresti correre il rischio che il tuo tentativo di ricalco e guida venga “sgamato” e che l’altro rompa il ponte che hai cercato di costruire, ergendo un muro ancora più spesso.Avere l’atteggiamento giusto significa avvicinarsi realmente all’altro, dimostrando sincero interesse con l’ascolto attivo e individuando una serie di punti di contatto.

Ecco l’indice della guida:

COMUNICAZIONE EFFICACE, NON DARE NULLA PER SCONTATO

Si comunica sempre
Siamo noi i responsabili della nostra comunicazione
Il linguaggio segreto del corpo
Il venditore che non presta attenzione

COME AUMENTARE L’ACUTEZZA SENSORIALE

Conta come lo dici: il paraverbale
Le parole contano, eccome
L’importanza di ascoltare attivamente

I VARI TIPI DI ASCOLTO

La parafrasi e le domande attive
La mappa non è il territorio
L’intelligenza percettiva
Entrare in rapport

 

COMUNICAZIONE EFFICACE: NON DARE NULLA PER SCONTATO

Se è vero che comunicare è un atto naturale, è anche vero che non tutti, e non sempre, lo fanno in modo efficace. Basterebbe prestare più attenzione e riflettere sul vero significato di questa parola per migliorare l’efficacia della propria comunicazione.

La parola “comunicazione” deriva dal latino “communicare” che significa mettere in comune ed è una parola composta da cum (insieme) e munis (dovere).

Partiamo dal cum: insieme. Quando comunichiamo non siamo soli. C’è sempre un altro che riceve il messaggio. Pensa a quante volte capita di ascoltare una persona e di avere l’impressione che non stia parlando con noi bensì con se stessa. Oppure quante volte capita di avere l’impressione che il nostro interlocutore non ci stia proprio ascoltando, ma stia solo ripassando nella mente ciò che deve dirci.

Prestare attenzione al fatto che comunicare significa trasmettere un messaggio a un’ALTRA persona, già ci consente di evitare due errori tipici:

  1. Dare per scontato che ciò che appare chiaro a noi lo sia anche a chi riceve il nostro messaggio.
  2. Pensare che chi riceve il nostro messaggio gli attribuisca lo stesso significato che attribuiamo noi.

Uno dei presupposti della comunicazione definiti da Paul Watzlawick, studioso del Mental Research Institute di Palo Alto, California, dice che: «Il significato della comunicazione sta nel responso che se ne ottiene e non nelle intenzioni». Forse ti sarà successo di dire o fare qualcosa che pensavi sarebbe stata gradita da un tuo famigliare, amico, collega, suscitando invece una reazione inaspettatamente negativa. Ti sei domandato il motivo? Il motivo è che non tutti attribuiamo lo stesso significato agli avvenimenti e quindi reagiamo a essi in modo diverso.

Quindi la prima domanda chiave per comunicare in modo efficace è:

  • Con chi comunico?

Ciò significa porsi altre domande come queste:

  • Qual è la sua mappa del mondo?
  • Quali sono i suoi bisogni?
  • Quali sono le emozioni che sta vivendo in questo momento o che vorrebbe vivere?

C’è poi un’altra domanda che è utile porsi se si vuole comunicare in modo efficace:

  • Qual è il mio obiettivo?

Questa è una domanda utile in ogni momento: a lavoro, in famiglia, con gli amici, quando prepariamo una presentazione in pubblico, quando dobbiamo negoziare, quando dobbiamo gestire un conflitto…

Quante volte capita di perdere di vista l’obiettivo principale della comunicazione! Quando l’unico obiettivo del relatore è finire il prima possibile – o strappare una risata o un applauso – allora la comunicazione in pubblico non è efficace. Quando in una discussione con il partner o un collega l’unico obiettivo diventa “averla vinta” a tutti i costi, allora la comunicazione non è efficace.

 

SI COMUNICA SEMPRE

Il primo assioma della comunicazione definito da Paul Watzlawick è il seguente:
«Non si può non comunicare»

Ciò significa che ogni individuo vivente comunica in molteplici modi e non potrebbe esimersi dal farlo, neanche se lo volesse. L’abbigliamento, la postura, i gesti, come ci muoviamo nello spazio… Tutto parla di noi. Quanto alle parole, non sono sempre indispensabili, anzi: a volte è più eloquente il silenzio, uno sguardo o un sorriso.

La comunicazione rappresenta quindi, più in generale, il nostro comportamento, che non si riferisce solo alle parole che pronunciamo ma anche appunto al nostro linguaggio del corpo e ad altri aspetti. Lo psicologo americano Albert Mehrabian ha anche stimato e definito in termini di percentuale l’impatto che le parole, il tono e il corpo hanno sulla comunicazione. Stando alle sue ricerche la trasmissione di un messaggio dipenderebbe solo per il 7% dalle parole (livello verbale), per il 38% dal tono della voce (livello paraverbale) e per il 55% da ciò che comunica il nostro linguaggio del corpo (livello non verbale).

«Ma come? Non è possibile che le parole contino così poco!». Questa è la reazione tipica delle persone quando apprendono la teoria di Merhabian. Questa reazione di stupore e incredulità però deriva dal fatto che siamo soliti assimilare la comunicazione all’atto del parlare e anche a quello dello scrivere, ma, come abbiamo visto, la comunicazione è qualcosa di più ampio di cui il parlare e lo scrivere sono solo una parte e, per altro, neppure quella preponderante.

 

SIAMO NOI I RESPONSABILI DELLA NOSTRA COMUNICAZIONE

Ora voglio passare all’altro termine latino che compone la parola comunicazione: munis che significa dovere. Questo concetto si associa a quello di responsabilità. Se è vero che tutti comunichiamo perché, come abbiamo visto, è un atto naturale, è altrettanto vero che non tutti si assumono la responsabilità di ciò che comunicano.

Quante volte si dicono o sentono frasi come queste: «Tu non mi capisci», «Hai frainteso quello volevo dire», oppure «Possibile che tu non capisca?», «Non mi ha prestato ascolto».

Se vogliamo comunicare efficacemente dobbiamo assumerci la responsabilità della comunicazione. Se ci fai caso, nella parola responsabilità sono contenute altre due parole: risposta e abilità. Ebbene, saper comunicare efficacemente significa anche questo: essere abili a fornire una risposta. E invece spesso i problemi di comunicazione nascono proprio dal fatto che non esercitiamo questa abilità, ma ci limitiamo a reagire.

C’è una bella differenza tra rispondere e reagire. «Il compito che ti avevo assegnato non è stato eseguito in modo corretto!».

Reazione passiva: «Mi spiace davvero, forse non sono portato per questo tipo di lavoro».

Reazione aggressiva: «Sì perché, come al solito, ho dovuto fare tutto di corsa e senza indicazioni precise!».

Risposta assertiva: «Può mostrarmi come avrebbe dovuto esser fatto? Così la prossima volta posso fare meglio».

Mentre il passivo e l’aggressivo tendono a reagire di fronte a una critica, l’assertivo cerca una risposta e una soluzione. Si assume la responsabilità dell’errore. Ricordi? Responsabilità significa abilità di risposta. L’assertivo è in grado (o cerca di farlo) di fornire una risposta diversa da quella che l’ha portato a commettere un errore.

Laddove l’aggressivo e il passivo si limitano a reagire perché dominati dalle emozioni – il primo dalla rabbia, il secondo dalla paura – l’assertivo invece gestisce le proprie emozioni e, per questo, anche nel caso di conflitto non perde mai di vista il proprio obiettivo principale.

 

IL LINGUAGGIO SEGRETO DEL CORPO

Ci sono casi in cui le parole dicono SÌ, il tono e l’espressione del viso e altri segnali del corpo dicono NO. Il linguaggio del corpo può dare forza e incisività a quello verbale, ma può anche smentire quanto detto a parole.

Ciò accade perché il linguaggio del corpo può essere utilizzato in modo volontario, come ben sanno i grandi comunicatori e seduttori, ma possiede anche una componente involontaria. Quest’ultima sfugge al nostro controllo, a differenza del linguaggio verbale che è, per così dire, quello “di facciata”, quello che possiamo controllare meglio, al punto da dire perfino cose che non vorremmo, ma che sono richieste dalle circostanze.

Ci sono molti modi con cui il corpo sfugge al controllo della volontà ed è estremamente utile riconoscerli per capire meglio gli altri, che cosa pensano e sentono veramente al di là di ciò che dicono, così da avere un feedback veritiero.

Per esempio se mentre parli una persona porta la mano davanti alla bocca o la copre con un pugno come si fa quando si ha un colpo di tosse, potrebbe avere qualcosa da nascondere, magari ha un parere diverso da tuo, ma in quel momento non può esprimerlo liberamente.

E ancora, sfiorarsi il naso o strofinarsi gli occhi, distogliendo in questo modo lo sguardo dall’interlocutore, potrebbe essere il segnale del fatto che la persona non sta dicendo la verità.
Qui il condizionale è d’obbligo, perché non c’è proprio una corrispondenza diretta e necessaria tra questi atti e il loro significato.

 

IL VENDITORE CHE NON PRESTA ATTENZIONE

Immagina questa situazione abbastanza tipica: un venditore che si trova davanti a due interlocutori. Uno parla e interagisce con il venditore. Sembra convinto. L’altro se ne sta in silenzio. Il venditore conclude la sua presentazione e saluta convinto di avere già conquistato un nuovo cliente. In fondo cosa manca? Solo la firma del contratto. E invece non è così.

Dopo qualche giorno il venditore scopre che in realtà la persona in silenzio ha convinto l’altro a cambiare idea. In effetti, a pensarci bene, l’interlocutore silenzioso aveva lanciato qualche segnale da cui si poteva dedurre un certo distacco o uno stato di tensione (la gamba destra si muoveva in continuazione in modo nervoso, lo sguardo era sfuggente, il busto reclinato indietro…), ma il venditore aveva preferito prestare ascolto solo alla persona che parlava e sorrideva.

Se solo avesse prestato più attenzione ai messaggi in codice inviati dall’interlocutore silenzioso forse avrebbe potuto fare qualche domanda giusta in più e quindi avere qualche chances in più di giocarsela meglio. Inconsciamente tutti cogliamo i messaggi inviati dal corpo. Ma non sempre vi prestiamo ascolto. E questo riduce l’efficacia della nostra comunicazione.

COME AUMENTARE L’ACUTEZZA SENSORIALE

Ora vediamo quali sono i principali segnali del corpo in modo da aumentare quella che viene definita acutezza sensoriale, ovvero quella sensibilità che ci permette di cogliere quei messaggi sottili grazie a una maggiore attenzione e consapevolezza, così da poterli individuare e interpretare correttamente.

I segnali emessi dal corpo sono essenzialmente di tre diversi tipi: segnali di scarico di tensione, di rifiuto e di gradimento. Ecco un repertorio di quelli più comuni:

 

I segnali di scarico di tensione

Sono quelli che indicano uno stato di imbarazzo, ansia, stress, tensione del nostro interlocutore. Sono segnali di scarico di tensione i vari grattamenti della testa, del collo, del braccio, ecc., dondolare in modo nervoso la gamba, lo sguardo sfuggente, sorridere in modo nervoso e innaturale, tossire per schiarirsi la voce.

A questi si aggiungono delle variazioni neuro-fisiologiche come il rossore, il pallore la tachicardia, l’ipersudorazione, l’accapponamento della pelle, la respirazione affannosa, il blocco della saliva, il tremore e l’irrigidimento dei muscoli della faccia.

 

I segnali di rifiuto

Sono di solito piuttosto palesi come l’allontanamento fisico, l’espressione del viso cupa, la chiusura in posizione di difesa tipica di chi accavalla le gambe con braccia conserte e ruota il busto di lato in modo che il proprio braccio gli faccia quasi da scudo.

Vi sono poi altri segnali più sottili come sfregare la punta del naso con il dito, spolverarsi o allontanare da sé degli oggetti, come se si volessero prendere le distanze dal problema o dall’argomento trattati dall’interlocutore. Il rifiuto può riguardare solo uno specifico argomento oppure la persona che parla. L’unica prova di questo si può avere se, al variare dell’argomento trattato, continuano i segnali di rifiuto.

 

Segnali di gradimento

Nel viso il centro del piacere è nella bocca e non a caso molti segnali di gradimento vengono proprio da qui, come quello che viene definito il bacio analogico, che consiste nel far sporgere le labbra in avanti, accarezzarsi e mordicchiarsi le labbra, toccare il labbro superiore con le labbra.

Altri segni di gradimento sono l’avvicinamento, il protendere il proprio corpo verso l’interlocutore e l’atto di accarezzare se stessi. Ci sono segnali di gradimento tipicamente femminili di tipo seduttivo come toccarsi i capelli (in realtà si dovrebbe dire accarezzare i capelli, perché l’atto di chi ci gioca attorcigliandoli è un segnale di scarico di tensione), toccarsi il lobo dell’orecchio e giocare con l’anello.

Quando un uomo si accarezza il petto, mette le mani sui fianchi, le appoggia alla cintura o giocherella con la cravatta sta lanciando dei segnali di gradimento e in alcuni casi vuole affermare la propria virilità.

 

Uno schema non rigido

Conoscere i segnali del corpo è fondamentale per essere dei buoni comunicatori. Attraverso la lettura di questi segnali, infatti, è possibile capire cosa piace all’interlocutore, cosa lo disturba, cosa lo infastidisce o gli provoca tensione e stress e quindi adattare la propria comunicazione per renderla ancora più efficace.

Usa pure queste indicazioni di massima, ma con un’avvertenza: non considerarle come uno schema rigido d’interpretazione. Il medesimo segnale può avere infatti anche significati diversi. Per esempio, non sempre le braccia conserte sono un segno di rifiuto ma possono essere semplicemente una posizione in cui il nostro interlocutore si sente particolarmente comodo e a proprio agio e dunque rappresentano il modo migliore per ascoltarci.

Bisogna sempre prestare attenzione al contesto e fare una valutazione globale. Ogni persona ha una sua postura di base che è frutto del suo carattere, dei condizionamenti ricevuti e delle esperienze vissute. Saper riconoscere le reali intenzioni nascoste dietro un gesto richiede occhi e orecchie sempre aperti, mente attenta e naturalmente un cuore.

 

CONTA COME LO DICI: IL PARAVERBALE

Il linguaggio verbale, è di per sé ambiguo e spesso non basta per cogliere il vero senso di una frase. Facciamo un esempio:

«La riunione è domani alle 17».

In quanti modi si può pronunciare questa frase? Quante sfumature di significato può avere?

Potrebbe essere pronunciata con il tono scocciato di una persona che deve annullare la partita al calcetto settimanale con gli amici o quello di una madre che deve lasciare ancora una volta i figli dalla baby sitter fino a tardi.

Potrebbe essere pronunciata in tono preoccupato da una persona che non ha raccolto tutti i dati che dovranno essere esaminati in riunione. Oppure potrebbe essere detta dal capo con un tono tra l’impositivo e il minaccioso quasi a voler dire: «Guai a chi non c’è!».

Eppure le parole sono le stesse, ma il messaggio di fondo è cambiato. Cosa determina il vero senso del messaggio? Il paraverbale.

Tra le componenti paraverbali rientrano il tono della voce (arrabbiato, sereno, seduttivo, sarcastico, dolce, duro…), il ritmo (ossia la velocità con cui parli: un ritmo veloce può trasmettere tensione o motivazione, mentre un ritmo lento può suscitare calma e tranquillità), il volume (parlare a voce alta o bassa) e il timbro (è il colore distintivo della tua voce: calda, roca, stridula, ecc.).

Al variare di questi parametri variano anche le emozioni suscitate nell’interlocutore. Prendiamo la parola “tesoro”. Che tipo di emozione possiamo veicolare o suscitare con questa parola? Verrebbe da dire: positive. E invece, al variare del tono anche una parola come tesoro può assumere connotazioni inaspettate.

Può essere pronunciata con affetto da un genitore o da un innamorato, ma anche con tono di compatimento, con ironia, o addirittura con tono carico di rabbia come fa Jack Nicholson quando rincorre la moglie Wendy in una delle scene più famose del film Shining.

E infine la stessa parola viene pronunciata con una carica emotiva pazzesca da uno dei personaggi più noti del lungometraggio “Il Signore degli anelli”, ovvero Gollum quando dice: «Il mio tessssoro».

Insomma, al variare del tono spesso varia il significato di una frase. Una frase apparentemente neutra può suonare come una critica oppure come un consiglio a seconda del tono con cui viene detta.

Parlando di ritmo e velocità, se sei una persona che tende a parlare troppo velocemente, o almeno così dicono le persone che ti conoscono e ti hanno sentito parlare, e non vuoi trasmettere ansia al tuo interlocutore, ma al contrario farlo sentire a suo agio quando comunica con te, cerca di rallentare. Se, al contrario, sei troppo lento, puoi cercare di velocizzare per evitare di annoiare le persone.

Lo stesso principio si può applicare al volume. Ci sono persone che normalmente parlano ad alta voce e non si rendono conto che questo potrebbe infastidire gli altri. Parlare ad alta voce potrebbe trasmettere sicurezza, ma anche arroganza, a seconda di chi ascolta. Lo stesso vale per la voce bassa che potrebbe trasmettere sobrietà ma anche insicurezza. Ancora una volta, dipende da chi ascolta.

Nel paraverbale rientrano anche le pause e i silenzi. Anche la giusta modulazione di silenzi e parole può fare la differenza.

 

LE PAROLE CONTANO, ECCOME

Poco fa ti parlavo del fatto che è una minima quota – quella del 7% – assegnata alla componente verbale. In realtà le parole hanno un potere enorme, soprattutto quelle pronunciate dalle persone più importanti della tua vita.

Pensa per esempio alle parole di disapprovazione pronunciate da un genitore o da un insegnante nei confronti di un ragazzino, oppure a un rimprovero del tuo capo, che ti è piombato addosso in un momento in cui eri particolarmente sensibile. Quante di queste parole ti rimbombano ancora oggi nella testa, a distanza di anni? Ma soprattutto, quante ti hanno colpito così in profondità da condizionare le tue relazioni, le tue credenze e il modo in cui ti approcci al mondo?

Vale per le parole negative come per quelle positive, anche se spesso le prime si insinuano nel nostro inconscio più facilmente delle seconde. Le parole sono come semi gettati nel nostro inconscio, che nel tempo generano dei frutti, determinando la persona che oggi siamo.

 

L’IMPORTANZA DI ASCOLTARE ATTIVAMENTE

Ti è mai capitato di incontrare un venditore che ti ha travolto di parole che decantavano le potenzialità del suo prodotto e che non ti ha posto neppure una domanda se non quella decisiva alla fine della sua pappardella? Oppure di andare da un medico che non ti ha neppure lasciato finire di descrivere i tuoi sintomi e si è messo a compilare una ricetta? Oppure ti capita a volte di vedere in televisione delle interviste a politici che fanno lunghi discorsi che non hanno alcuna attinenza con quanto è stato chiesto dal giornalista? Magari tutti e tre questi soggetti si esprimono in modo corretto dal punto di vista lessicale e grammaticale, ma non si può proprio dire che sappiano comunicare in modo efficace.

Sì, perché ciò che li accomuna è l’incapacità di ascolto.

E, contrariamente a quanto si pensa, l’efficacia della nostra comunicazione dipende più dalla nostra capacità di ascoltare che da quella di parlare. Pensaci bene, la maggior parte degli incidenti comunicativi, dei conflitti tra le persone dipendono proprio dall’incapacità di ascoltare. Nel contesto professionale molti errori dipendono dal fatto che le persone non ascoltano, oppure non lo fanno nel modo giusto.

«La gente non ascolta, aspetta solo il suo turno per parlare».
(Chuck Palahniuk)

Perché la gente non ascolta? C’è chi pensa sia una perdita di tempo («Tanto so già cosa deve dirmi») e chi invece non sa bene come farlo. E questo accade nella maggior parte dei casi. Fin dai primi anni di vita, infatti, ci insegnano a parlare, ma non ci insegnano come si ascolta. Come se ascoltare fosse un atto naturale.

Ci insegnano i conflitti e le incomprensioni che possono essere all’ordine del giorno, ma la maggior parte delle persone non sa ascoltare veramente. C’è un altro motivo più profondo per cui la gente non ascolta, un motivo che di solito si fa fatica ad ammettere: non ascoltiamo per soddisfare uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, il bisogno di sicurezza. Sì, perché l’ascolto, quando è reale, profondo o, come vedremo tra poco, attivo, ci porta spesso fuori dalla nostra area di comfort.

Ci porta a contatto con una visione del mondo diversa dalla nostra, talvolta ci impone di ristrutturare la mappa che ci siamo fatti e, nei casi estremi, anche a mettere in dubbio le nostre stesse convinzioni.

Quindi non ascoltare ci consente di restare al sicuro, nella nostra bolla di certezze, nel nostro mondo ben ordinato, dove tutto è al proprio posto. Magari è il posto sbagliato, ma poco importa, l’importante è stare al sicuro. Perché mai allora dovremmo ascoltare?

Se la gente ascoltasse davvero il doppio di quanto è solita parlare ci sarebbero meno conflitti e incomprensioni. Le persone troverebbero non solo le parole, ma anche il modo giusto per trasmettere il proprio messaggio all’interlocutore di riferimento. Troppo spesso comunichiamo agli altri come faremmo con noi stessi.

Ma l’altro è diverso da noi e non possiamo pretendere di trasmettere lo stesso messaggio nello stesso modo a persone diverse. Immagina se il tuo dentista ti spiegasse l’intervento che deve fare per riparare un dente cariato nello stesso modo in cui si esprimerebbe con un collega. Non ci capiresti nulla.

 

I VARI TIPI DI ASCOLTO

In quanti modi possiamo ascoltare? Che domanda? Uno! O si ascolta oppure non si ascolta… verrebbe da dire. In realtà ci sono diversi modi di ascoltare.

Finto ascolto

Tipo di ascolto che si individua subito dall’occhio a pesce lesso dell’interlocutore. È lì davanti a te, tu parli e lui ti guarda in modo perso, magari fa sì con la testa e ogni tanto emette qualche suono di assenso, ma tu potresti anche dire una sciocchezza e lui non se ne accorgerebbe.

È capitato un po’ a tutti di vivere questa esperienza. Immagina la scena: lei parla in continuazione da qualche minuto. Lui la ascolta o almeno così sembra. A un certo punto lei capisce che forse lui sta fingendo e allora chiede:

«Ma mi stai ascoltando?». «Certo cara».

E allora lì la donna tira fuori la maestrina che c’è in lei e chiede a bruciapelo: «Bene, cosa stavo dicendo?». Qualche istante di panico, poi lui recupera la calma insieme alle ultime tre parole di lei registrate nella zona più superficiale del cervello. E bingo! Anche questa volta l’ha fatta franca (ma per quanto funzionerà?).

 

Ascolto selettivo

Dopo il finto ascolto c’è l’ascolto selettivo. È quello tipico di chi ha già in mente la propria risposta e quindi ascolta solo quelle parole che si collegano a essa e magari la supportano. L’ascolto selettivo è interessato ed egocentrico. Non è per nulla orientato a conoscere i bisogni e la posizione dell’altro ma solo a difendere i propri.

 

Ascolto superficiale

È quello di chi recepisce solo il messaggio trasmesso dal linguaggio verbale.

«Tutto ok?».
«Sì, certo».
«Bene».

Poco importa se quel «Sì, certo» non era per nulla pronunciato in tono convinto. Formalmente però la risposta è positiva e per chi ha chiesto «Tutto ok?» è rimasta in superficie. Magari è successo perché non ha saputo cogliere il messaggio non verbale oppure perché gli ha fatto comodo fingere di credere al «Sì, certo».

Spesso le domande «Come va» o «Tutto ok?» vengono usate come formule di rito per iniziare una conversazione e non perché ci sia da parte di chi le pronuncia il reale interesse a sapere se l’altro stia bene o male.

 

Ascolto attivo

Cosa significa ascoltare attivamente? Nell’ascolto attivo si presta attenzione non solo a cosa dice l’interlocutore ma anche a come lo dice. Si presta attenzione al tono per capirne il suo stato emotivo, ma si guarda anche al linguaggio del corpo che può esprimere, come abbiamo visto, approvazione, disapprovazione oppure tensione a sostegno o al di là delle parole.

«Nella comunicazione la cosa più importante
è sentire ciò che non viene detto».
(Peter F. Drucker)

L’ascolto attivo è detto anche empatico.

 

LA PARAFRASI E LE DOMANDE ATTIVE

Abbiamo detto che ascoltare attivamente significa comprendere non solo cosa dice l’interlocutore ma soprattutto come lo dice, cogliendo anche le sfumature del paraverbale e i segnali del corpo. Quindi si ascolta con le orecchie, ma anche con gli occhi e, potremmo dire, anche con la pancia.

Cosa significa ascoltare con la pancia? Significa che spesso, anche quando non osserviamo attentamente il nostro interlocutore per cogliere i segnali del corpo che ci lancia mentre parla, in realtà c’è una parte di noi che avverte quei segnali.

Infine l’ascolto attivo si fa anche con il cuore perché, come abbiamo detto, ci porta nel mondo interiore dell’altra persona, alla scoperta di emozioni, bisogni e desideri.

L’ascolto attivo è anche detto così perché chi lo pratica non è, tanto per dire, passivo, ovvero non si limita ad ascoltare in silenzio ciò che l’altro dice, ma partecipa attivamente, ponendo domande e facendo, di tanto in tanto, una parafrasi di quanto è stato detto dall’altro fino a quel momento.

La parafrasi consiste nel ripetere ciò che ha detto l’interlocutore sintetizzando e sottolineando le parole chiave per lui importanti.

La parafrasi è utile per diversi motivi. Innanzitutto serve proprio per capire se si è compreso ciò che l’altro ha detto. Spesso infatti le parafrasi iniziano proprio così: «Quindi se ho capito bene tu hai detto che…».

Un altro modo per dimostrare attenzione nei confronti dell’altro è fare domande. Saper fare le domande giuste nel momento giusto è una delle doti principali per comunicare in modo efficace ed esistono diversi tipi di domande che sono più o meno adatte a seconda del contesto.

Ci sono le domande chiuse che prevedono solo due tipi di risposte: sì o no.
«Hai finito il report che ti ho assegnato ieri?», «Hai fatto i compiti?», «Usciamo a cena?».

E poi ci sono le domande aperte che prevedono, come suggerisce l’aggettivo, l’apertura a una vasta gamma di possibili risposte. Le domande aperte possono essere a loro volta distinte in dirette, indirette o di stimolo.

Le domande aperte dirette mirano direttamente a una questione. Per esempio: «Perché sei arrivato così tardi?», «Perché avete deciso di cambiare fornitore?».

Le domande aperte indirette sono più generiche e offrono all’altra persona una maggiore libertà di espressione. Per esempio: «Cosa pensi dell’attuale situazione politica?».

Le domande aperte di stimolo invece hanno lo scopo di invitare semplicemente l’altro a parlare. Per esempio: «Come stai?», «Come va oggi?».

Sia le domande aperte che quelle chiuse possono essere neutre o influenzate.

Le domande influenzate sono quelle che inducono l’interlocutore verso un certo tipo di risposta. Ecco un esempio di domanda influenzata: «Cosa le è piaciuto di più di ciò che ha visto finora?».

Questa domanda si basa su un presupposto: ovvero che ci sia qualcosa che è piaciuto al potenziale cliente e quindi con questa domanda il venditore orienta la sua attenzione verso qualcosa di positivo e lo allontana da possibili obiezioni.

“Chi domanda comanda!” recita un detto ed effettivamente le domande sono un prezioso strumento di orientamento del focus sia nel dialogo con gli altri che nel dialogo interno.

Ci sono domande che focalizzano sul problema e altre sulla soluzione, domande che mettono le persone a proprio agio e favoriscono la relazione e domande che trasformano il dialogo in una partita a ping pong.

Un abile comunicatore sa scegliere le domande giuste per ogni contesto, ma soprattutto sa porle nel modo giusto per evitare l’effetto interrogatorio. La cosa importante è conquistare la fiducia dell’altro. Allora potrai porgli tutte le domande che vuoi perché avrà detto sì alla domanda implicita: «Vuoi comunicare con me?».

 

LA MAPPA NON È IL TERRITORIO

Ciascuno di noi ha un carattere e una personalità unici, che ne fanno un individuo autentico. In base al nostro carattere e alla nostra personalità abbiamo un modo di leggere e di vedere il mondo altrettanto unico. La mappa mentale che il mio cervello costruisce nel momento in cui riceve delle informazioni dall’ambiente e le rielabora per interpretarle sarà diversa dalla tua mappa mentale. Si dice che non esistano due mappe mentali identiche, proprio come non esistono due personalità identiche.

Comprendere le mappe mentali della persona con cui stiamo dialogando ci aiuta a entrare in empatia con lei. Con un po’ di attenzione, possiamo osservare il suo linguaggio cerebrale, comprendere come ragiona e come si emoziona, quali sono le sue idee, le sue necessità e i suoi desideri. Solo allora saremo in grado di creare con lei una forte vicinanza comunicativa: la nostra comunicazione si modellerà sul miglior linguaggio possibile per lei e a quel punto riusciremo meglio a trasmetterle, a nostra volta, le nostre idee, le nostre necessità e i nostri desideri.

La PNL ci viene in aiuto proprio perché è la scienza che studia la connessione esistente tra i processi neurologici, il linguaggio e gli schemi comportamentali. Essa parte dall’assunto che ogni attività umana viene attuata dopo essere stata programmata dal cervello, in modo conscio o inconscio.

 

L’INTELLIGENZA PERCETTIVA

Nel corso delle loro ricerche John Grinder e Richard Bandler, i padri fondatori della PNL, osservarono che ogni individuo preferisce adoperare un determinato sistema sensoriale per decodificare gli stimoli esterni. Sebbene ciascuno di noi utilizzi sempre tutti i cinque sensi, ne ha uno che costituisce il suo senso dominante. Possiamo individuare tre differenti intelligenze percettive a seconda dell’organo di senso dominante: intelligenza visiva, intelligenza uditiva e intelligenza cinestesica (o cinestetica).

Utilizziamo le intelligenze percettive un po’ come utilizziamo una lingua: esse diventano il nostro modo per ricevere informazioni e per comunicare con l’ambiente. Per questo, se vogliamo aumentare le nostre capacità di persuasione, dobbiamo imparare a conoscere l’intelligenza percettiva dominante nella persona che abbiamo di fronte e sintonizzarci su di essa.

  • Come percepisce il mondo l’altra persona?
  • Qual è l’organo di senso che utilizza maggiormente per la codifica degli stimoli esterni?
  • Come possiamo relazionarci a lei favorendole un processo di decodifica del nostro messaggio secondo il suo organo di senso dominante?

L’intelligenza visiva

L’intelligenza visiva concerne, ovviamente, la vista. Una persona visiva percepisce il mondo per come lo vede. Quando ricorda, ricorda per immagini. Quando deve spiegarsi, utilizza metafore visive. Quando pensa a qualcosa, lo visualizza. Quando parla con qualcuno, lo guarda negli occhi. Parla velocemente, spesso con raffiche di parole, senza cadenze particolari.

Nell’esprimersi, spesso adotta una gestualità “centrifuga”, ossia con ampi gesti verso l’esterno e verso l’alto, quasi come se volesse disegnare in aria i concetti. Se deve studiare o memorizzare qualcosa, preferisce leggerlo o vederlo. Ama esplorare l’aspetto degli oggetti, osservandoli da più punti di vista. Quando osserva qualcosa, potrebbe essere tanto assorto nella contemplazione da trattenere il respiro.

Una persona visiva cura molto il suo aspetto fisico e il suo vestiario. Ecco alcune delle parole o le espressioni usate da una persona visiva:

«Dare un’occhiata»
«Gettare lo sguardo»
«Secondo il mio punto di vista…»
«Senz’ombra di dubbio»
«Un’idea nebulosa»
«Essere di umore nero»
«A prima vista…»
«Dalla mia prospettiva»
«Lascia che ti illustri»
«Alla luce di…»
«Mettere a fuoco»

In genere tutti i verbi legati alla vista come: mostrare, guardare, riconoscere, intravedere, visionare, contemplare, ammirare, illustrare, ecc.

Come possiamo comunicare con una persona dall’intelligenza visiva?

Semplice: parlando per immagini! Se siamo dei venditori, potremo illustrare il nostro prodotto facendolo vedere o il nostro servizio presentando prospetti, grafi ci o immagini. Se dobbiamo indurla a compiere una scelta, sottolineeremo i vantaggi a livello visivo di quella scelta. Accompagneremo le nostre parole ai gesti delle mani e stimoleremo la persona visiva a visualizzare il tema della nostra discussione.

Ovviamente, anche il nostro lessico si conformerà a quello della persona visiva. Potremo quindi utilizzare frasi del tipo: «Dia un’occhiata a questi prospetti», «Si vede a prima vista che è un’occasione eccellente», «Le illustrerò ogni aspetto nei minimi dettagli», «Questo colore la illumina». Sintetizzando in una massima l’atteggiamento relazionale che dovremmo tenere con una persona visiva: «Parlare poco, mostrare molto».

 

L’intelligenza uditiva

L’intelligenza uditiva è quella che favorisce la decodifica dell’ambiente attraverso il senso dell’udito. Una persona uditiva percepisce il mondo attraverso i suoni. La persona uditiva è un oratore eccellente e quando parla con qualcuno difficilmente lo guarda negli occhi: il suo sguardo è spesso di lato e mentre interloquisce assume una posizione rilassata, magari incrociando le braccia. Quando parla indica spesso l’orecchio e si tocca sovente le labbra. È attenta alle parole che vengono dette, perché a esse attribuisce molto significato. Infatti parla con cadenza ritmata e regolare, quasi soppesasse non solo ogni parola, ma anche ogni pausa di silenzio. Sovente utilizza termini onomatopeici. Riesce a organizzare lucidamente le proprie idee anche nel mezzo di conversazioni infuocate. Di contro, può diventare nervosa se si trova in un ambiente rumoroso.

Se deve studiare o memorizzare qualcosa preferisce leggerlo ad alta voce oppure ama studiare attraverso audiolibri o audiocorsi. Ama la musica, ovviamente, ed è affascinata dai suoni che gli oggetti possono riprodurre. Ha un respiro calmo e regolare. Il tratto tipico di una persona uditiva è la voce: un timbro melodioso, né troppo altro, né troppo basso. Ci accorgiamo di avere ottenuto l’attenzione di una persona uditiva quando inclina la testa di lato, come se parlasse al telefono: è il suo modo di porgere l’orecchio a ciò che stiamo dicendo.

Ecco alcune delle parole o le espressioni usate da una persona uditiva:

«Suona bene» «Suona male»
«C’è armonia, «C’è sintonia».
«Rispondere a tono»
«Prestare orecchio»
«Mettere la pulce nell’orecchio»
«Fare orecchio da mercante»
«Porre l’accento su…»
«Parola chiave»

«Si dice che…»

In genere tutti i verbi legati al senso dell’udito quali: ascoltare, stridere, menzionare, sussurrare, parlare, ecc.

Come possiamo comunicare con una persona dall’intelligenza uditiva?

Per prima cosa dobbiamo dare molto peso a ciò che diremo e utilizzare i giusti termini e i giusti vocaboli in base al loro preciso significato. Sarà opportuno presentare le nostre idee in modo razionale e analitico, un passo alla volta, logicamente.

Se il nostro intento è vendere un prodotto a una persona uditiva sarà importante mettere in risalto tutte le caratteristiche sonore (se esistono) di quel prodotto. Dovremo fare molta attenzione al nostro tono di voce. Allo stesso tempo, una persona uditiva ci prenderà decisamente in simpatia se percepirà che siamo in grado di ascoltarla con attenzione. Se è possibile, potremo parlare con lei in un ambiente silenzioso o con un gradevole sottofondo musicale.

Potremo quindi utilizzare frasi del tipo: «Sono tutt’orecchi per lei», «Le suona corretto?», «Ascolterò con attenzione tutto quanto ha da dirmi». Sintetizzando in una massima l’atteggiamento relazionale che dovremmo tenere con una persona uditiva: «Fare attenzione a ciò che si dice (parole) e a come lo si dice (tono della voce)».

 

L’intelligenza cinestesica

L’intelligenza cinestesica raggruppa tutto ciò che percepiamo attraverso il tatto, il gusto, l’olfatto, le sensazioni, le emozioni e il movimento. Una persona cinestesica è molto facile da riconoscere. Ama la manualità e costruire fisicamente. Rappresenta e memorizza i concetti come fossero sensazioni fisiche. Allo stesso tempo mostra palesemente le sue emozioni e manifesta spontaneamente ciò che sente. Ha una postura del corpo rilassata e si muove con scioltezza.

Anche i suoi movimenti sono pacati, così come la sua gestualità, che è “centripeta”, ovvero rivolta verso sé, quasi volesse “stringere” i concetti. È difficile guardare negli occhi una persona cinestesica, perché spesso punta il suo sguardo verso il basso: significa che è intenta a percepire le proprie sensazioni. In un rapporto interpersonale, chi è cinestesico cerca spesso il contatto fisico con il proprio interlocutore.

Ecco alcune delle parole o le espressioni usate da una persona cinestetica:

«Avere la pelle d’oca»
«Tenere i piedi per terra»
«Non avere peli sulla lingua»
«Avere la puzza sotto il naso»

«Scherzi di cattivo gusto»
«Avere l’acquolina in bocca»
«Fiutare l’inganno»
«Rimanere a bocca asciutta»
«Colpire nel segno»
«Toccare con mano»
«Mettersi nelle sue scarpe, «Mettersi nei suoi panni»

Tutti quei verbi legati alle aree sensoriali cinestesiche: sentire, percepire, commuoversi, procedere, colpire, attaccare, emozionarsi, toccare, ecc.

Come possiamo comunicare con una persona dall’intelligenza cinestesica?

Una persona cinestesica preferisce esperienze pratiche e attività che permettono di vivere l’esperienza. Pertanto, se dovremo sostenere una tesi di fronte a lei, sarà bene che le permettiamo di verificarla attraverso una dimostrazione reale, magari coinvolgendola attivamente.

Presentandole un progetto, lasceremo che la persona “afferri” in mano il report che abbiamo preparato. Se le stiamo presentando un prodotto, la inviteremo a provarlo. Dovremo sottolineare le qualità di ciò che proponiamo e, se il contesto lo permette, potrebbe essere utile accompagnare le nostre parole con gesti, contatto o azioni fisiche.

Potremmo inoltre utilizzare frasi del tipo: «Vorrei sensibilizzarla su questo punto», «Sente che può esserle utile?», «Trattare con lei è molto piacevole e mette a proprio agio». Sintetizzando in una massima l’atteggiamento relazionale che dovremmo tenere con una persona cinestetica: “Ogni nostra frase, gesto o spiegazione dovrà essere collegata a un’emozione”.

 

ENTRARE IN RAPPORT

Calibrare il tuo interlocutore significa prestare attenzione non solo alle sue comunicazioni verbali ma soprattutto a quelle paraverbali e non verbali. La calibrazione del sistema rappresentazionale del tuo interlocutore è quindi un processo che include il riconoscimento di tutti questi aspetti per comprendere lo stato emotivo di chi hai di fronte e creare ciò che in PNL viene definito rapport, ossia un rapporto segnato da “armonia, concordanza, accordo, affinità”.

Entrare in rapport con una persona significa essere sulla sua stessa lunghezza d’onda, assicurandosi quindi una comunicazione più semplice, rilassata ed efficace. Le chiavi per ottenere questo obiettivo sono due: l’ascolto attivo e il ricalco.

Ora che abbiamo fatto la distinzione tra visivo, auditivo e cinestesico posso sfatare un mito.
Probabilmente avrai già sentito frasi come: «Guardami quando ti parlo!». Questa frase si basa sul presupposto errato che se una persona non ci guarda negli occhi non ci sta ascoltando con attenzione.

In realtà è stato recentemente dimostrato che quando una persona guarda intensamente l’altra negli occhi riduce la sua capacità di ascolto. Del resto, l’auditivo, che più di tutti è quello più portato all’ascolto, solitamente non guarda l’interlocutore negli occhi e predilige prestare orecchio a quello che dice e al modo in cui lo dice. Quindi la sua testa è leggermente spostata di lato.

Il secondo strumento di cui ti puoi servire per entrare in rapport con qualcuno è il ricalco, una strategia che proviene da Milton Erickson, che era in grado di trattare con successo anche pazienti altamente resistenti con i quali altri terapeuti avevano fallito.

Il ricalco è una tecnica molto nota della PNL che si traduce nel riproporre alcuni elementi del comportamento della persona con cui vuoi entrare in sintonia, tra cui, per esempio, lo stato d’animo, la postura, i gesti, la mimica facciale, il tono della voce, le opinioni o addirittura il ritmo del respiro.

Ricalcare una persona significa quindi «andare incontro all’altra persona nel punto in cui lui o lei si trova, riflettendo quello che lui o lei sa o presuppone sia vero, o accordarsi con alcune parti dell’esperienza che lui o lei sta vivendo» (Jerry Richardson).

È Milton Erickson a fornirci l’esempio di un ricalco perfetto, attuato in occasione di un incidente occorso al suo figlioletto di tre anni, che cadde dalle scale rompendosi il labbro e traumatizzando un dente dell’arcata superiore. Puoi immaginare il pianto del bimbo, e le sue urla di dolore e spavento alla vista del sangue sul pavimento.

La prima cosa che fece Erickson fu appunto ricalcare lo stato d’animo del bambino con due semplici frasi: «Fa un male terribile, Robert. Fa un male terribile…», seguita da «e continuerà a farti un gran male…».

Solo dopo aver stabilito un punto di contatto con il figlio, attraverso la piena comprensione del suo dolore, Erickson riuscì a far focalizzare il piccolo verso qualcosa di diverso dal male che pur provava ancora: insieme alla moglie, che era accorsa insieme a lui in soccorso del bambino e gli resse poi il gioco, finse di dover analizzare la qualità del sangue sparso sul pavimento, per accertarsi che fosse “buono, rosso e forte”. Il piccolo, incuriosito, smise di piangere, lasciandosi così guidare sempre più lontano dal trauma.

Così puoi fare tu, ricalcando le opinioni dell’altro, prima di condurlo sul tuo terreno di gioco.
Se proprio non ci fosse niente da ricalcare e la vostra conversazione procedesse su due livelli differenti, puoi almeno scegliere di ricalcarne le sensazioni, utilizzando la frase:

«Se fossi al tuo posto, mi sentirei proprio come te».

 

CONCLUSIONE

Un abile comunicatore è colui che riesce a trasmettere il proprio messaggio al proprio interlocutore nel modo giusto.

E, giunti alla fine di questa guida sulla comunicazione efficace, è assolutamente chiaro che non c’è un modo giusto in assoluto per dire le cose. Il modo giusto ce lo suggerisce il nostro interlocutore. Nella comunicazione c’è sempre l’incontro di due mappe del mondo che possono essere più o meno simili ma non saranno mai perfettamente identiche. È questa differenza che “complica” le cose. E quanto più facciamo valere la nostra mappa come l’unica possibile, tanto più corriamo il rischio di costruire dei muri tra noi e l’altra persona.

Alla fine la dote più importante di un abile comunicatore sta in questo: abbattere muri e costruire ponti su cui gli altri hanno il piacere di passare dalla sua parte o anche solo di fermarsi a metà per un piacevole scambio.

L’uomo è un animale sociale, vive di relazioni. La qualità della sua vita dipende proprio dalla qualità delle relazioni che ha con gli altri esseri simili a lui. E la qualità delle nostre relazioni non dipende tanto dalla fortuna di trovare persone con cui ci troviamo bene e con cui è un piacere avere a che fare, ma dalla nostra capacità di comunicare con qualsiasi tipo di persona: dall’amico con cui siamo in perfetta sintonia al collega con cui magari non abbiamo nessun feeling.
È proprio con persone distanti dal nostro stile comunicativo che si misura la nostra abilità di comunicare.

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