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Consiglieresti ad altri il tuo capo come una persona con cui lavorare? Per approfondire queste tematiche, abbiamo chiesto il parere di Daniela Bonetti, direttrice nazionale della Roberto Re Leadership School ed esperta in formazione e gestione del team.

L’80% delle oltre 600 persone intervistate nella ricerca “Good Boss vs Bad boss” della LIUC Business School (di Castellanza, Varese) risponde – sorprendentemente – di NO..!! Ciò che emerge è che la maggior parte dei manager utilizza modelli di gestione del personale vecchi di almeno 50 anni e non più adatti alle nuove sfide. Il risultato – che conferma i dati di una ricerca Gallup del 2017 – è che oltre l’80% dei collaboratori di aziende nel mondo è disengaged (non coinvolto).

 

Daniela, nel tuo bestseller “Leadership al femminile” (scritto in collaborazione con Francesca Romano e pubblicato da Mondadori nella collana “Libri da leader”) scrivi che un vero leader è una persona che sa gestire al meglio se stesso e le proprie risorse interiori, intese anche come stati d’animo, pensieri e relazioni. Come mai molti manager hanno difficoltà nel farsi seguire dai propri collaboratori?

Una delle caratteristiche fondamentali della leadership è inevitabilmente la gestione delle emozioni. D’altronde lavorando con altre persone, le incomprensioni dal punto di vista comunicativo sono all’ordine del giorno. Molti manager però prendono sul personale i comportamenti e i mancati risultati dei collaboratori, arrivano a sentirsi in colpa se le cose non funzionano. È importante riconoscere eventuali provocazioni o frustrazioni causate dalla mancanza di risultati: se nel dare feedback ai collaboratori non mantieni grande distacco, rischi di entrare nel giudizio e danneggiare il tuo interlocutore dal punto di vista emozionale. Quando un manager entra in questo circolo improduttivo e reagisce alle provocazioni, smette di essere un esempio. Se si arrabbia facilmente – se giudica invece di dare feedback – le persone non lo riconoscono come un leader che può fare la differenza: anzi è visto come un nemico che sta lì a rilevare che non sei all’altezza o non vai bene.

 

Tu sei anche una trainer su temi strategici come la comunicazione e la leadership. Come si fa ad aiutare il management a sviluppare un “employee point of view” per permettere ai collaboratori di lavorare al meglio?

I manager devono imparare a conoscere lo stato d’animo dei propri collaboratori, mettendosi nei panni di chi gli sta di fronte. Un aspirante leader deve essere preparato sulle strategie di comunicazione: comunicare con tutti allo stesso modo non va bene. Occorre focalizzarsi sul cosiddetto “modello del mondo” degli altri, conoscere la mappa del ‘come’ i collaboratori soddisfano i propri bisogni. Chiedersi cosa li motiva, come si può aiutarli a ottenere più risultati. L’ascolto è fondamentale: verbale, ma soprattutto non verbale ed emozionale.

 

Tra i comportamenti che portano a consigliare il proprio capo, il più votato è la capacità di lasciare ai collaboratori un ampio grado di libertà nel modo in cui si conseguono i risultati. È vero che per i millennials, più orientati rispetto alle generazioni precedenti a una gestione autonoma del lavoro, contano i risultati e non le modalità operative?

La maggior parte dei manager pensa che, per ottenere risultati, i collaboratori debbano comportarsi come il loro capo. Ma i risultati arrivano solo se lasciamo esprimere liberamente le persone, con i loro metodi e i loro talenti. Nel mio libro (di prossima pubblicazione) accenno al tema della leadership situazionale di Kenneth Blanchard: un modello che consente di analizzare i bisogni delle persone coinvolte nella situazione in cui ci si trova e di utilizzare lo stile di leadership di volta in volta più consono. Io stessa, applicandolo con le persone del mio team, mi sento più efficace nel gestire via via le diverse situazioni.

 

Un’altra qualità riconosciuta positivamente dai collaboratori è la disponibilità a essere ascoltati per un confronto e ad accogliere le loro opinioni. Qual è la tua esperienza su questo?

In generale, ognuno di noi desidera essere ascoltato e capito. Personalmente faccio il possibile per conoscere i miei collaboratori, anche dal punto di vista personale: la loro storia, chi sono, cos’hanno fatto, quali esperienze di vita hanno avuto. Spesso questo fa la differenza anche nel lavoro e nel ruolo che andranno a ricoprire. Per avere sempre nuovi punti di vista, molte volte condivido un’idea con i collaboratori: un’abitudine produttiva che permette alla tua squadra di sentirsi importante fornendo un contributo. Condividendo la mission invece di sentirsi solo un numero.

 

Grazie alla tecnologia, i più giovani oggi sono favoriti dal riuscire a lavorare da remoto. Cosa pensi dello smart working, della flessibilità nei tempi e nei luoghi di lavoro? È utile a conciliare vita e professione o fa perdere in produttività?

Credo fermamente che la tecnologia sia un grande vantaggio per tutti. Utilizzata bene, ti permette di fare riunioni e webinar mettendo insieme persone in tutto il mondo. Puoi fare appuntamenti, usare video e audio per comunicare contemporaneamente con più persone. Oggi i social ti aiutano a conoscere meglio gli altri, sia sotto l’aspetto personale che professionale, anche rispetto alla credibilità e alla reputazione di ciascuno. Applicando i principi della gestione del tempo e della programmazione, si limita la dispersione e si aiuta la realizzazione dei risultati, indipendentemente da dove ti trovi e da come lo fai. Molte aziende concedono maggiore libertà ai propri collaboratori, che possono così lavorare da casa, eliminando gli orari rigidi. I capi hanno capito che sono più importanti le attività che uno svolge, non come le svolgi e da dove.

 

Passando alle note negative, tra i comportamenti che portano a NON consigliare il proprio capo, il più votato è la mancata definizione di ruoli e responsabilità. Come si lavora con un capo che resta vago su ruoli e responsabilità?

È molto complicato lavorare con un capo approssimativo. I collaboratori vanno guidati, devono aver chiaro l’obiettivo da raggiungere e il ruolo ricoperto in termini di competenze. Trovo efficace che i collaboratori sentano la responsabilità dei risultati: questo genera crescita e maturità per affrontare le sfide e abitudine a conoscere i punti di forza e le aree di miglioramento. Senza questo passaggio, un collaboratore può andare in confusione perché non capisce quali siano i suoi compiti e le sue responsabilità. Nel mio nuovo libro spiego un metodo chiamato “cornice d’accordo”, che ha una doppia utilità: fornire linee guida e regole del gioco per lavorare insieme, e insieme portare chiarezza e sicurezza.

 

In questo tuo nuovo libro che uscirà prossimamente, hai approfondito la figura del Team Leader. Perché sarà importante leggerlo?

Come ho già detto prima, l’obiettivo di questo libro è trasferire un metodo che racchiude tutto ciò che ho imparato nel tempo: cosa è meglio fare e cosa invece è preferibile evitare. Lungo il percorso – come accade a tutti – diversi collaboratori hanno preso strade diverse, mentre molti altri li ho guidati e portati a livelli alti. Alcuni pensano che gestire una squadra sia un lavoro duro e difficile. In effetti, è vero. Ma lavorando con l’atteggiamento giusto, le persone del tuo team possono insegnarti tanto. Sono loro ad aiutarti a diventare un grande leader. Anche nei confronti di chi abbiamo “perso” per strada è giusto essere soddisfatti per la loro crescita personale. Siate felici per loro, anche se si trattava di una risorsa valida e importante: siate fieri per aver contribuito alla sua crescita, per essere stati parte del suo successo. In ogni caso, lavorare con le persone è sempre una grande esperienza di crescita: e scrivere questo libro mi ha aiutato a ripercorrere tutti gli aspetti importanti che mi hanno permesso di diventare quell’imprenditrice che oggi sono felice di essere.

 

Alessandro Dattilo